
(articolo pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno del 1 settembre 2020)
Studioso di semiotica e docente di Teorie e tecniche delle scritture all’Università di Torino, Alessandro Perissinotto nel suo ormai cospicuo corpus narrativo – sedici romanzi: il primo, L’anno che uccisero Rosetta è del 1997 – ha sperimentato le varie potenzialità del poliziesco, dalla variante storica degli esordi nel segno di Leonardo Sciascia, a quella contemporanea – si pensi alla trilogia gialla con protagonista la psicologa detective Anna Pavesi – fino al police procedural dei romanzi ‘estoni’, firmati con l’alias Arno Saar. In seguito, lo scrittore torinese si è sottratto alle convenzioni del genere e si è dedicato a quelli che egli stesso ha definito – sulla scia di Georges Simenon – “romanzi duri”: «duri per i temi trattati, duri per la profondità di analisi sociale, duri per il tipo di scrittura. Non sono migliori o peggiori dei polizieschi, sono solo romanzi». Tuttavia entrare o uscire dal genere, scrivere romanzi gialli o “romanzi duri”, come Quel che l’acqua nasconde, Le colpe dei padri e Il silenzio della collina, sono opzioni che Perissinotto considera sempre funzionali a un progetto narrativo volto a far riemergere alla superficie della memoria collettiva quelle parti di un passato controverso, la cui rimozione può generare talora il ripetersi dei medesimi errori.
Nel suo nuovo romanzo, La congregazione, Perissinotto racconta una “storia americana”. Ci porta infatti a Frisco, Colorado, paese delle Rocky Mountains a tremila metri di quota e a un centinaio di miglia da Denver. Qui, in una casa da poco ereditata dalla zia, si trasferisce Elizabeth, spogliarellista ormai a fine carriera ma ancora piacente, per scontare la pena che le è stata inflitta per guida in stato di ebbrezza (la seconda volta in un anno): ventiquattro mesi con la cavigliera elettronica e l’obbligo di non superare i confini del villaggio. Per la donna sembrerebbe l’inizio di una nuova vita: un lavoro presso il locale distributore di benzina, una casa, una comunità semplice e accogliente. Un giorno però un passato da tempo rimosso torna a gettare la sua ombra sinistra su di lei. Un passato legato a un terribile fatto di sangue, avvenuto quaranta anni prima e a migliaia di chilometri di distanza. Un passato non di fantasia, ma realmente accaduto: la strage di Jonestown, Guyana, del 18 novembre 1978, quando 909 adepti della setta del “Tempio del popolo”, tra cui 219 bambini, morirono in un suicidio-omicidio di massa, ingerendo una bevanda di frutta contente cianuro, su ordine del capo e fondatore, James Warren Jones. Questi negli anni Cinquanta aveva fondato la Congregazione a Indianapolis, per poi trasferirla in California e infine nel 1977 nella giungla del nord-est della Guyana per sfuggire alle inchieste dell’FBI, seguite alle numerose denunce di uso di droghe, circonvenzione di incapace, sequestro di persona e reati finanziari. Presentata come una sorta di Eden, la comunità del “Tempio del popolo” si reggeva in realtà sullo sfruttamento quasi schiavistico del lavoro degli accoliti e su un sistema quanto mai coercitivo. Coloro i quali manifestavano apertamente il desiderio di tornare a casa o criticavano le condizioni di vita nella comunità, venivano assegnati a “squadre di rieducazione” e costretti per giorni interi a lavori pesanti, oltre ad essere sottoposti a pubbliche umiliazioni e nel caso delle donne, a ripetuti abusi sessuali. La decisione ‘finale’ fu dettata dal fatto che il Reverendo si era visto ormai messo alle strette dalla commissione d’inchiesta presieduta dal deputato democratico Leo Ryan, che finì ucciso con la sua delegazione in un conflitto a fuoco nell’aeroporto di Port Kaituma, poco prima che fosse dato inizio alle pratiche del suicidio. In 167 sopravvissero al massacro. Tra questi – e torniamo alla finzione narrativa – Elizabeth, che quaranta anni dopo, mentre è al lavoro, viene casualmente riconosciuta da qualcuno proveniente dal suo stesso passato. Un qualcuno che intende farle rivivere quella «vita che aveva tenuto nascosta a chiunque».
Perissinotto struttura il racconto intrecciando abilmente tre linee temporali, che fanno confluire a poco a poco, i destini dei personaggi in un punto di soluzione finale. Si realizza così un andirivieni tra più livelli temporali e spaziali, dove la drammaticità delle storie e l’incombere del pericolo si intersecano senza soluzione di continuità. Ne deriva una successione di capitoli che alternano di continuo passato (ricostruzione della vicenda di Quaranta anni prima), presente (l’Adesso che sta vivendo Elizabeth, nascosta nella miniera per sfuggire ai sicari e a un destino di morte) e il passato prossimo, a partire dalle Sette settimane prima, quando la protagonista arriva a Frisco. Un abile montaggio narrativo cui fa da pendant la capacità dello scrittore torinese di coniugare il thriller con il romanzo storico e la detection, anche attraverso il ricorso a ‘effetti speciali’ di realtà, quali gli stralci degli atti di un seminario della Rutgers University sulla strage di Jonestown nella stampa estera dell’epoca. A ciò si accompagna la precisa descrizione della cittadina americana e della sua vita quotidiana. Qui vive una varia umanità che sembra uscita da un film dei fratelli Coen, come, ad esempio, Fargo. Pensiamo allo sceriffo Gordon, al “cocco di mamma” Brendam e soprattutto al giovane Apiatan, con cui la protagonista stabilisce un rapporto via via sempre più intimo e tenero, nonostante la notevole differenza d’età. Del resto, quanto è successo al presidente francese e a sua moglie, sembra a Elizabeth una cosa bella, una «grande possibilità».