Teresa Ciabatti, Sembrava Bellezza

(articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno di domenica, 14 febbraio 2021)

Nel suo nuovo romanzo, Sembrava bellezza (Mondadori, pp. 240, € 18,00), Teresa Ciabatti torna a percorrere quei territori dell’autofiction, cioè della autobiografia di fatti non accaduti, già frequentati con successo ne La più amata (finalista al Premio Strega 2017). Immergere avvenimenti reali in un flusso che li falsifica e creare un proprio avatar di carta, sembrano rappresentare per l’autrice toscana il mezzo migliore per cogliere, sia pure al prezzo di uno spietato autodafé, quegli aspetti più difficilmente dicibili della nostra vera vita, emotiva e intellettuale: la vergogna, l’invidia, l’inadeguatezza, l’imbarazzo e il trauma. 

Colei che in Sembrava bellezza dice io è una donna di mezza età, senza nome, una scrittrice di fama, una vita tra noiose presentazioni, interviste e reportage per importanti periodici culturali. Un matrimonio fallito alle spalle, tanti amanti occasionali, il corpo che cambia a causa della menopausa, una figlia ventenne, Anita, che la detesta. E soprattutto la paura di perdere il successo conquistato grazie a un rabbioso desiderio di rivalsa. In passato la Scrittrice è stata «un’adolescente di provincia trasferitasi in città per la separazione dei genitori», «una ragazzona triste, impaurita, complessata, derisa, rabbiosa», studentessa al Liceo Mamiani di Roma, quartiere Parioli. Una sola amica, Federica, anche lei sovrappeso, anche lei un’isolata. Le due dopo trent’anni si ritrovano, tornano a frequentarsi e a condividere il presente. Con Federica ricompare anche Livia, la sua bellissima e invidiatissima sorella maggiore, la reginetta della scuola, che, diciassettenne, a seguito di un misterioso incidente, ha subito danni neurologici irreversibili. Ora è una cinquantenne con la mente di una ragazzina, una eterna adolescente per la quale il tempo non si è mai fermato: eppure sembrava bellezza la sua… 

«Questa – sottolinea la Scrittrice – è la storia di Livia, ma nel profondo, in senso universale, è la storia delle ragazze di quella generazione». La generazione di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, scomparse, secondo una leggenda metropolitana in auge in quel periodo, nelle botole dei camerini dei negozi di Via del Corso. Ciabatti in Sembrava bellezza mette dunque in scena un io letterario, che è anche un noi generazionale, un io riferito a una donna che scrive nel 2021 per andare alla ricerca di quella ragazza che è stata nei primi anni Ottanta e capire chi è oggi («non dipende forse dall’adolescenza l’adulto che sei?»). Più che raccontare un episodio di giovinezza, oggetto di indagine è l’identità sepolta sotto tutti gli anni che sono passati dalla fase dell’adolescenza. Così dal confronto tra l’io di ieri, quello di una ragazza che non sa nulla del futuro, e l’io di oggi, impegnato a rintracciare il passato, si ha come risultato l’esplorazione di un magma incandescente, che non consente di cambiare ciò che è stato, ma di gettare una luce diversa sui propri sentimenti e sui propri affetti: «evolvere non è una questione di intelligenza, ma di esperienza». Ma Sembrava bellezza è anche un romanzo di corpi, che Ciabatti, autrice capace come poche di operare al meglio quella strana forma di metempsicosi permessa dalla scrittura, attraversa e muove con abilità. Ai corpi appartengono gli ultimi, indistinguibili sussulti di energia, una reattività che ha origini profonde e che, se non arresta le derive della mente, almeno rende possibile qualche avvicinamento, qualche tensione e la percezione di sé nell’urgenza imprescindibile della pulsione e del pentimento.

E se poi ci svegliassimo negli Anni Venti?

(articolo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 dicembre 2020)

In una delle prime pagine della Signora Dalloway, capolavoro di Virginia Woolf pubblicato nel 1925 e ambientato, come è noto, in una giornata di giugno del ‘23, apprendiamo, sia pure implicitamente, che la protagonista è sopravvissuta all’epidemia di Spagnola del 1918. La scrittrice inglese consegna uno dei suoi personaggi più celebri alla storia della letteratura così, con addosso le cicatrici fisiche, ma soprattutto mentali di una pandemia. Allora la festa della signora Dalloway viene ad assumere un connotato meno frivolo, diventa dimostrazione di vitalità, voglia di tornare a catturare il quotidiano in tutti i suoi aspetti, anche quelli meno significativi. Sono, a ben guardare, quegli stessi segni che porteremo quasi sicuramente – chi più lievi, chi più gravi e profondi – con noi negli anni Venti del XXI secolo. 

È questo uno dei tanti giochi di specchi, rimandi e rimbalzi, assonanze e dissonanze, che animanoil nuovo libro di Paolo Di Paolo, Svegliarsi negli anni Venti. Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro, (Mondadori). Allo ‘spirito del tempo’ lo scrittore romano aveva dedicato un saggio Tempo senza scelte, uscito per Einaudi nel 2016: una riflessione su un contemporaneo, volto a impedire la scelta e l’autodeterminazione, favorendo al contrario l’apatia. In questo suo nuovo lavoro invece l’attenzione è focalizzata sui passaggi epocali, «quelli in cui il calendario dei fatti e quello dei sentimenti combaciano». Cosa rara. Lo evidenzia il Franz Werfel di Morte di un piccolo borghese, requiem in forma di racconto di un Impero austro-ungarico, ormai travolto dalla guerra, citato in epigrafe: «appartenere a due mondi, abbracciare con un’anima sola due epoche», è una condizione che tocca solo a poche generazioni.

Di fronte a un tempo in continua trasformazione, secondo Di Paolo, bisognerebbe comportarsi come l’ebreo polacco settantenne sopravvissuto all’Olocausto, protagonista del romanzo di Saul Bellow Il giardino di Mr. Sammler (1970): «addestrarsi», «essere sufficientemente forti per non rimanere terrorizzati di fronte agli effetti locali della metamorfosi». Coadiuvato dalle due assistenti virtuali di Amazon e di Apple, Alexa e Siri (ogni sezione del libro inizia con una domanda ‘esistenziale’ rivolta a loro: come stai?, quanti anni hai?), l’autore rimbalza, come «uno strano animale nel mezzo di una muta» (così si definisce), tra passato, presente e futuro, concepisce il libro come «corridoio spazio-temporale, uno spericolato tunnel da epoca a epoca». «Appassionato agli scrittori, agli artisti, alle loro vite», Di Paolo disegna un itinerarioche va, solo per citarne alcuni, dalsuo autore feticcio Piero Gobetti, cui ha già dedicato il romanzo Mandami tanta vita (2013) a Henry Miller, dallo scienziato pacifista Niels Bohr a Kiki de Montparnasse, al secolo Alice Prin, figura iconica della Parigi ‘ruggente’. E poi l’omaggio alla casa museo di Sigmund Freud, il viaggio a Merano nel segno di Kafka e quello sui luoghi di Thomas Mann, lo scrittore in fuga dal nazismo, che nelle cinquecento pagine di Considerazioni di un impolitico del 1918 aveva lodato lo spirito tedesco, rivendicandone la superiorità. Considerazioni in seguito ritrattate sia pure tardivamente, forse attribuibili a uno spirito del tempo, voglioso di un riscatto, dopo una sconfitta e una punizione giudicata eccessiva. Eppure, scrive Di Paolo, «un secolo dopo, lampeggiano intermittenti nel dibattito internazionale parole come identitarismo, sovranismo, nazionalismo. Non le avevamo archiviate?»

Una setta, una donna e una storia americana

(articolo pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno del 1 settembre 2020)

Studioso di semiotica e docente di Teorie e tecniche delle scritture all’Università di Torino, Alessandro Perissinotto nel suo ormai cospicuo corpus narrativo – sedici romanzi: il primo, L’anno che uccisero Rosetta è del 1997 – ha sperimentato le varie potenzialità del poliziesco, dalla variante storica degli esordi nel segno di Leonardo Sciascia, a quella contemporanea – si pensi alla trilogia gialla con protagonista la psicologa detective Anna Pavesi – fino al police procedural dei romanzi ‘estoni’, firmati con l’alias Arno Saar. In seguito, lo scrittore torinese si è sottratto alle convenzioni del genere e si è dedicato a quelli che egli stesso ha definito – sulla scia di Georges Simenon – “romanzi duri”: «duri per i temi trattati, duri per la profondità di analisi sociale, duri per il tipo di scrittura. Non sono migliori o peggiori dei polizieschi, sono solo romanzi». Tuttavia entrare o uscire dal genere, scrivere romanzi gialli o “romanzi duri”, come Quel che l’acqua nasconde, Le colpe dei padri e Il silenzio della collina, sono opzioni che Perissinotto considera sempre funzionali a un progetto narrativo volto a far riemergere alla superficie della memoria collettiva quelle parti di un passato controverso, la cui rimozione può generare talora il ripetersi dei medesimi errori.

Nel suo nuovo romanzo, La congregazione, Perissinotto racconta una “storia americana”. Ci porta infatti a Frisco, Colorado, paese delle Rocky Mountains a tremila metri di quota e a un centinaio di miglia da Denver. Qui, in una casa da poco ereditata dalla zia, si trasferisce Elizabeth, spogliarellista ormai a fine carriera ma ancora piacente, per scontare la pena che le è stata inflitta per guida in stato di ebbrezza (la seconda volta in un anno): ventiquattro mesi con la cavigliera elettronica e l’obbligo di non superare i confini del villaggio. Per la donna sembrerebbe l’inizio di una nuova vita: un lavoro presso il locale distributore di benzina, una casa, una comunità semplice e accogliente. Un giorno però un passato da tempo rimosso torna a gettare la sua ombra sinistra su di lei. Un passato legato a un terribile fatto di sangue, avvenuto quaranta anni prima e a migliaia di chilometri di distanza. Un passato non di fantasia, ma realmente accaduto: la strage di Jonestown, Guyana, del 18 novembre 1978, quando 909 adepti della setta del “Tempio del popolo”, tra cui 219 bambini, morirono in un suicidio-omicidio di massa, ingerendo una bevanda di frutta contente cianuro, su ordine del capo e fondatore, James Warren Jones. Questi negli anni Cinquanta aveva fondato la Congregazione a Indianapolis, per poi trasferirla in California e infine nel 1977 nella giungla del nord-est della Guyana per sfuggire alle inchieste dell’FBI, seguite alle numerose denunce di uso di droghe, circonvenzione di incapace, sequestro di persona e reati finanziari. Presentata come una sorta di Eden, la comunità del “Tempio del popolo” si reggeva in realtà sullo sfruttamento quasi schiavistico del lavoro degli accoliti e su un sistema quanto mai coercitivo. Coloro i quali manifestavano apertamente il desiderio di tornare a casa o criticavano le condizioni di vita nella comunità, venivano assegnati a “squadre di rieducazione” e costretti per giorni interi a lavori pesanti, oltre ad essere sottoposti a pubbliche umiliazioni e nel caso delle donne, a ripetuti abusi sessuali. La decisione ‘finale’ fu dettata dal fatto che il Reverendo si era visto ormai messo alle strette dalla commissione d’inchiesta presieduta dal deputato democratico Leo Ryan, che finì ucciso con la sua delegazione in un conflitto a fuoco nell’aeroporto di Port Kaituma, poco prima che fosse dato inizio alle pratiche del suicidio. In 167 sopravvissero al massacro. Tra questi – e torniamo alla finzione narrativa – Elizabeth, che quaranta anni dopo, mentre è al lavoro, viene casualmente riconosciuta da qualcuno proveniente dal suo stesso passato. Un qualcuno che intende farle rivivere quella «vita che aveva tenuto nascosta a chiunque». 

Perissinotto struttura il racconto intrecciando abilmente tre linee temporali, che fanno confluire a poco a poco, i destini dei personaggi in un punto di soluzione finale. Si realizza così un andirivieni tra più livelli temporali e spaziali, dove la drammaticità delle storie e l’incombere del pericolo si intersecano senza soluzione di continuità. Ne deriva una successione di capitoli che alternano di continuo passato (ricostruzione della vicenda di Quaranta anni prima), presente (l’Adesso che sta vivendo Elizabeth, nascosta nella miniera per sfuggire ai sicari e a un destino di morte) e il passato prossimo, a partire dalle Sette settimane prima, quando la protagonista arriva a Frisco. Un abile montaggio narrativo cui fa da pendant la capacità dello scrittore torinese di coniugare il thriller con il romanzo storico e la detection, anche attraverso il ricorso a ‘effetti speciali’ di realtà, quali gli stralci degli atti di un seminario della Rutgers University sulla strage di Jonestown nella stampa estera dell’epoca. A ciò si accompagna la precisa descrizione della cittadina americana e della sua vita quotidiana. Qui vive una varia umanità che sembra uscita da un film dei fratelli Coen, come, ad esempio, Fargo. Pensiamo allo sceriffo Gordon, al “cocco di mamma” Brendam e soprattutto al giovane Apiatan, con cui la protagonista stabilisce un rapporto via via sempre più intimo e tenero, nonostante la notevole differenza d’età. Del resto, quanto è successo al presidente francese e a sua moglie, sembra a Elizabeth una cosa bella, una «grande possibilità».