Che cosa significa, per cominciare, la parola “intellettuale”? Un autore che in questo dopoguerra ebbe particolare e meritata fortuna fra i lettori di sinistra affermò che per intellettuale deve intendersi chiunque non eserciti un mestiere manuale. Una definizione generosa, abbondante e perciò poco attillata, che andava larga: dal prete al portalettere, su su fino a Benedetto Croce, tutti quanti cadevano nel centone della intellettualità. Rinunciamo subito a questa definizione e rivolgiamoci al dizionario. Ne esistono molti a buon prezzo, e del resto li possiamo consultare gratuitamente nelle biblioteche.
È intellettuale, dice l’uno, chi vive nel mondo degli studi e dell’intelligenza. Vive, d’accordo, ma cosa ci fa in quel mondo? Uomo, dice, l’altro, di cultura e giudizio elevato. Oppure: persona colta, con l’animo aperto ai godimenti dello spirito. Una definizione, come si vede, molto vaga e anche viziosa, perché si morde la coda: persona colta è un modo di dire molto approssimativo, riferibile anche a chi abbia terminato la scuola dell’obbligo; anima e spirito sono pressappoco la stessa cosa, sicché dovremmo concludere che l’anima dell’intellettuale si apre al godimento di sé medesima, e cioè a una forma di vizio solitario, sconsigliato dai medici del passato, e non raccomandato mai da nessuno. E allora?
Sarà meglio lasciare tutto nel vago, non tentare neanche una definizione precisa. A noi preme che il nostro giovane di media levatura arrivi il più possibile in alto, come intellettuale. Se poi quel concetto resta indefinito, tanto meglio. La nebbia può essere dannosa, ma non sempre; a volte quando non c’è la si inventa, come nelle battaglie navali, per coprire i nostri movimenti al nemico. Lo stesso faremo noi; dopo tutto, quel fumo non lo abbiamo fatto noi, c’è sempre stato. dietro il fumo deve esserci come sempre l’arrosto. Cercheremo di levarlo dal fuoco al momento giusto.
(da Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare, Stampa alternativa, Viterbo 2011)