Era “solo un ragazzo”

(articolo pubblicato con qualche lieve modifica sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 14 ottobre 2020)

Elena Varvello elegge a epigrafe del suo nuovo romanzo, “Solo un ragazzo”, un celebre verso di Emily Dickinson, «Tell all truth, but tell it slant»: «Di’ tutta la verità, ma dilla obliqua». Fare ciò consente di confrontarsi con quegli aspetti del reale da cui si distoglie lo sguardo perché catalogati come osceni. Vale a dire le esperienze estreme della nostra vera vita, emotiva e intellettuale, quelle che il discorso sociale non integra per la loro scomodità, quali l’anomalia, il debordante e soprattutto il ‘cadavere’. Non quello falsificato con cui gioca lo spettacolo televisivo delle ‘cronache in diretta’ dei telegiornali, e neppure quello che manipola la società nel suo terrore puerile della morte. Ma appunto, il cadavere ‘vero’ della persona amata, di un figlio o di un fratello, che è ‘solo un ragazzo’. Un ragazzo che, nonostante il caldo, porta la felpa con il cappuccio sollevato anche d’estate. Un ragazzo che incomprensibilmente entra di notte in casa d’altri per rubare cose da nulla, inutili. Un ragazzo che da studente modello sempre sorridente, si trasforma in un freak, percepito dalla comunità come un delinquente «violento e imprevedibile», persino «rabbioso». Un ragazzo che decide di togliersi la vita senza un motivo apparente.

Come già nel notevole “La vita felice” (2016: best seller in Gran Bretagna nel 2018, unico italiano insieme alla Ferrante), la Varvello orienta ‘obliquamente’ la propria scrittura per esplorare l’intimo e coglierne l’impossibile e l’insostenibile. Scandaglia quella ferita interiore con cui gli esseri comunicano tra loro e si trovano restituiti alla bellezza della notte. Solo un ragazzo è una ‘favolaccia’ – ci sono un bosco, una capanna, un fiume, un ‘cappuccetto nero’, una filastrocca macabra – una storia ‘nera’ di assenze e di mancanze: la rappresentazione di un mondo strabordante di contraddizioni su cui aleggia un’aria di irrimediabile disperazione. Un mondo in cui sembra impossibile intervenire poiché tutto è già scritto, tutto è destinato a succedere e a tornare con maggiore insistenza, senza che nessuno possa rendersene conto. Inizia esattamente come finisce e nel mezzo vengono racchiusi tutti gli errori, gli abbagli, i rimpianti e le sofferenze, su cui si continuerà a cadere.

La Varvello racconta la disfatta di una famiglia ‘normale’, che dopo la notte maledetta del 1989, convive con un lutto tanto terribile quanto incomprensibile, o meglio, tanto terribile proprio perché incomprensibile: «Amare una persona e non poter fare nulla per impedire di svanire. O non capire in tempo – prima che fosse troppo tardi – di che avesse bisogno, quali segreti nascondesse». Da quel momento nulla è stato mai come prima. La madre Sara – personaggio tratteggiato magistralmente, quasi simenoniano – si è chiusa sempre più in sé stessa, mai abbandonata dal dolore, tanto da non riuscire più ad amare le figlie e il marito («Non usare mai più quella parola. Amore. Non con me. Non la sopporto più»). Il padre, Pietro, cerca di tirare avanti, tenta invano una nuova relazione con la giovane collaboratrice scolastica della scuola dove insegna. Ma ogni mattina si sveglia convinto che suo figlio stia dormendo in camera sua. E poi le due sorelle, Angela e Amelia, dalle vite tanto diverse, cresciute senza l’affetto e la guida di una madre chiusa nella sua sofferenza. Personaggi questi – frutto di una intensa e sorvegliatissima elaborazione artistica e psicologica – sui quali aleggia come un fantasma, quel figlio che viene percepito come presente, ma che non si riesce a chiamare con il suo nome. Quel ‘ragazzo’ che non si è riusciti a comprendere. Quel ‘ragazzo’ che non era solo un ‘ragazzo’.

Al magma caotico e nebuloso dei pensieri e delle azioni dei personaggi fa da pendant la scomposizione del romanzo in quadri narrativi, leggibili anche singolarmente come racconti, ognuno dei quali fotografa momenti di vita di questo o di quel personaggio dopo la notte della tragedia. Lo stile è serrato e giocato, secondo la lezione di William Trevor, su omissioni e sottrazioni, su rari e progressivi indizi e su andirivieni temporali. Al lettore il compito di ricostruire la fabula e di ricomporre i pezzi sparsi in giro di «una cosa rotta». Pezzi di una verità che è possibile riattaccare, sia pure obliquamente, attraverso gli strumenti della letteratura.

Bret Easton Ellis, Bianco

È mosso da un narcisismo esasperato e a volte fastidiosamente autocelebrativo. Le analisi che propone sulla cosiddetta likeability – il paradigma principe dei social network – sono stranote e già state abbastanza discusse. Le polemiche che animano alcune pagine sono francamente poco interessanti o ritrite, come l’ossessione per il politicamente corretto. Si criticano i social network però a volte si ha la sensazione che il libro sia stato scritto per chiudere le polemiche volutamente scatenate su Twitter (e tweet è una delle parole più presenti nel libro). E poi quel tono da “si stava meglio quando si stava peggio”…
Nonostante questo, “Bianco” è un libro da leggere. Innanzitutto perché l’ha scritto BEE, colui che ha segnato più di tutti la narrativa nordamericana a partire dagli anni Ottanta, arrivando a creare uno stile, con almeno tre grandi romanzi: Less than Zero, American Psycho e Lunar Park. È un libro da leggere per le bellissime pagine dedicate al cinema, ricche di acutissime osservazioni (tra le tante, la lunga e ragionata stroncatura di Moonlight; American Gigolò, film mediocre, con cui entra nella masscult l’immaginario gay; «gelo, freddezza, distacco, distanza, severità, minimalismo» parole da associare ai grandi registi, come Kubrick, Antonioni, Hitchcock, Rohmer, Godard). Ed è un libro da leggere per la capacità di farci capire il presente sotto i colpi di una intelligenza stilosamentee affinata.

«Per un ragazzino degli anni Settanta non esistevano genitori-elicottero: affrontavi il mondo più o meno per conto tuo, un’esplorazione priva del supporto dell’autorità paterna o materna. A posteriori, i miei genitori, al pari di quelli degli amici con cui sono cresciuto, mostravano un’incredibile disinvoltura, molto diversi dai genitori di oggi che documentano ogni mossa dei figli su Facebook e li mettono in posa su Instagram e li esortano a non frequentare posti pericolosi e chiedono solo positività mentre evidentemente cercano di proteggerli da ogni cosa. Se crescevi negli anni Settanta, la tua infanzia non era assolutamente così. Il mondo non ruotava attorno ai bambini».

«Il fatto che qualcuno possa interpretare una battuta o delle immagini (un dipinto o persino un tweet) come sessista o razzista (al di là del fatto che lo sia) e quindi offensivo e intollerabile – con la conseguenza che nessun altro dovrebbe ascoltare, vedere o tollerare quella cosa – è una nuova forma di mania, di psicosi che la nostra cultura sta coccolando».

«Un problema crescente della nostra società è l’incapacità delle persone di sopportare due pensieri opposti nello stesso momento in testa, così ogni “critica” del lavoro di chicchessia viene rubricata come elitarismo o come invidia o senso di superiorità».

«Dopo che hai creato la tua personale bolla che riflette solo ciò a cui tu ti rapporti e con cui ti identifichi, dopo che hai bloccato o smesso di seguire le persone le cui opinioni o la cui visione del mondo condanni o non condividi, dopo che hai creato la tua personale piccola utopia fondata sui valori che ti sono cari, una sorte di folle narcisismo inizia a deformare quest’immagine così carina».

«La maggior parte di noi oggi conduce sui social una vita che è più fondata sulla finzione di quanto non fossimo in grado di immaginare anche solo una decina di anni fa, e grazie al germogliare di questo culto della popolarità in un certo senso siamo diventati tutti degli attori».

da Bret Easton Ellis, Bianco, Einaudi, Torino 2019 (traduzione di Giuseppe Culicchia).