Starnone: una “confidenza” per la vita

(articolo pubblicato su «A naso», dicembre 2019)

“L’amore, che dire, se ne parla tanto, ma non credo di aver usato spesso la parola, ho l’impressione, anzi, di non essermene servito mai, anche se ho amato, certo che ho amato, ho amato fino a perdere la testa e i sentimenti”. Inizia così il racconto del protagonista del nuovo romanzo di Domenico Starnone, Confidenza (Einaudi), Pietro Vella, napoletano, insegnante di lettere in un liceo della Roma degli anni Ottanta, assurto a una certa notorietà grazie a un piccolo saggio militante sul sistema Scuola. L’uomo intreccia una relazione con una studentessa universitaria, dieci anni più giovane di lui, Teresa Quadraro, che è stata una sua alunna brillante ed esuberante al liceo. Il loro è un rapporto turbolento, fatto di “reciproche umiliazioni” e “reciproche esaltazioni”, di separazioni e ricongiungimenti. Dura tre anni. Ma i “lacci” tra loro due non si sciolgono del tutto: la loro storia si muta in un “matrimonio etico” (così lo definisce Teresa), fondato sulla sorveglianza reciproca a distanza tramite uno scambio di lettere scritte (e questo anche dopo l’avvento delle e-mail: proprio come nella corrispondenza tra Marco e Luisa nel Colibrì di Sandro Veronesi), dal momento che la donna, destinata ad una carriera straordinaria di scienziata, si trasferisce in America. A ‘garanzia’ di ciò una “confidenza” fatta tempo prima, quando l’uno ha confessato all’altra e viceversa, la cosa più terribile che ricorda di aver fatto in vita: sappiamo che si tratta di una cosa indicibile, vergognosa per lui, triste per lei. Questo li terrà per tutta la vita sotto scacco reciproco. Se uno dei due sgarra, “l’altro ha il diritto di dire a chiunque: ora ti spiego io chi è veramente quest’uomo, chi è veramente questa donna”. Finita la storia con Teresa, Pietro si lega a Nadia, sua collega, professoressa di matematica con ambizioni frustrate di carriera accademica. La sposerà e da lei avrà tre figli. Lo ritroveremo ultrasettantenne, tranquillo pensionato, nonno e marito affettuoso ed “empatico”, in attesa, suo malgrado, di una prestigiosa onorificenza da parte della Presidenza della Repubblica.

Con Confidenza Starnone continua con la consueta grande raffinatezza di scrittura, il suo viaggio nel microverso dei sentimenti umani e delle relazioni tra le persone e aggiunge alla sua galleria il ritratto memorabile di un uomo “spaventato”, afflitto da un male oscuro, cui dà per ingannare, soprattutto sé stesso, spiegazioni etiche e sociologiche. Strutturato sulla base di tre racconti, ognuno con un punto di vista diverso, quello di Pietro, della figlia di lui, Emma, di Teresa, e con una forte ellissi temporale tra il primo e gli altri due, quando ritroviamo Pietro anziano, settantenne, felice nonno di numerosi nipotini, Confidenza nega l’oggettività della narrazione. La vita di Pietro, i suoi amori, le sue scelte, il suo sentirsi inadeguato (“non tolleravo niente che mi mettesse di fronte al fatto di non essere perfetto”), le difficoltà della vita matrimoniale, le invidie sul lavoro e in casa (Nadia, una volta frustrate le sue ambizioni lavorative, gli rinfaccia di essere un padre e un marito assente e di dovere parte del successo letterario a lei e ai suoi sacrifici), ebbene, tutti questi elementi assumono sfumature diverse a seconda che a raccontarli sia l’adorante figlia Emma, giornalista nevrotica, o la stessa Teresa, che nega o quanto meno sminuisce alcuni dettagli del “primo racconto”, quello di Pietro.

Quello che emerge è da un lato il fallimento di un legame basato sulla “confidenza”, sulla “pedagogia dello spavento”, invece che su quella dell’affetto, dall’altro la difficoltà di essere assertivi, l’incapacità di perseguire i propri obiettivi con passo sicuro e deciso: Pietro alla prima magagna, alla prima richiesta di “cedimento servile”, si tira indietro, si chiude nel silenzio. In altre parole, non riesce a vivere una vita all’unisono con il proprio desiderio. Da qui l’insoddisfazione e quel tarlo invisibile, che esige perentoriamente ascolto. Il desiderio crea tentennamenti, fa paura. Seguirlo non è proprio passeggiata, una cosa semplice, senza impedimenti. Davanti all’oggetto del desiderio ci si angoscia. Si è presi da dubbi, indecisioni. Quelli che affliggono Pietro, prigioniero di una ossessione senza rimedio. L’ossessione provocata da quella “lava di vita grezza che brucia vita fine”, da quella “eruzione che cancella la comprensione e la pietà, la ragione e le ragioni, la geografia e la storia, la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, l’eccezione e la regola”, cioè da quello che chiamiamo amore.

Il popolo dei Dene, nel Canada di boschi e ghiaccio

(Questo articolo è uscito sul «manifesto» del 29 agosto 2020)

«Tributo alla terra», l’ultimo lavoro di graphic journalism di Joe Sacco edito da Rizzoli Lizard

Nel suo ultimo libro, Tributo alla terra (Rizzoli Lizard, traduzione di Boris Battaglia e Pasquale La Forgia), Sacco compie invece un viaggio nelle regioni boreali e artiche del Canada: terre di boschi e di ghiaccio (in inverno la temperatura arriva a raggiungere i quaranta gradi sotto zero) tanto vaste quanto difficili da raggiungere. Qui vive fin dalla notte dei tempi, la popolazione nomade dei Dene, gli aborigeni canadesi, che si sono sempre considerati figli della terra. La terra si prega e si paga» è da sempre il loro credo. Credo inconciliabile con le esigenze politiche ed economiche del mondo ‘esterno’. L’industria estrattiva facendo ricorso al fracking, una procedura che consiste nell’iniettare nel sottosuolo ad altissima pressione, una miscela tossica di acqua, sabbia e prodotti chimici, oltre a causare danni irreversibili all’ecosistema, ha acuito nei territori i problemi sociali, favorendo la diffusione endemica di fenomeni come l’alcolismo, la prostituzione e la violenza domestica.

Sacco racconta come il governo canadese ha portato avanti un processo di sradicamento e distruzione identitaria dei nativi, attraverso il sistema delle Residential Schools. In questi convitti religiosi, cattolici o protestanti, in realtà dei veri e propri piccoli lager, attivi per oltre centocinquanta anni fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, furono portati in modo coattivo dalle autorità, bambini e ragazzi, strappati alle loro famiglie. Le vicende delle Residential Schools sono state peraltro segnate da violenze, abusi sessuali e morti. Fatti su cui ha indagato la Truth and Reconciliation Commission, istituita nel 2008 sul modello di quella del Sudafrica post Apartheid. «Circa 150mila bambini indigeni frequentarono i collegi canadesi. Più di 8000 (il quattro per cento) morirono per malattia, negligenza, abusi o altra cause dovute alla carenza del sistema. Ma i corpi spezzati e traumatizzati dei bambini erano parte di un piano più grande»: un “genocidio culturale”, volto a porre fine all’esistenza dei popoli aborigeni come entità legali, sociali, culturali e religiose e il loro, per così dire, assorbimento (risorse comprese ovviamente) nelle strutture dello stato canadese.

Sacco, come d’abitudine fornisce sempre al lettore riferimenti storici, geografici e culturali precisi e delinea minuziosamente la cornice all’interno della quale muove la sua narrazione. Oltre che giornalista scrupoloso e preparato come pochi, l’autore di Palestina è un disegnatore straordinario, capace da un lato di comporre tavole panoramiche dettagliatissime di vita corale e industriale, bravo dall’altro nel restituire al meglio l’emotività dei suoi numerosi intervistati. In queste tavole Sacco fa virare il suo tratto verso un marcato espressionismo fortemente chiaroscurato, riprendendo la lezione di Robert Crumb – grandi bocche, grandi sorrisi e grandi occhi – con inquadrature spesso distorte. Come Michael Moore nei suoi film – ma decisamente meno ingombrante e saccente – il Sacco personaggio si presenta come un reporter, a volte goffo e confuso, spesso dubbioso («Che differenza c’è tra me e una compagnia petrolifera? Siamo qui tutt’e due per portare via qualcosa»), molto attento nell’ascoltare i testimoni, da cui a volte si lascia mettere in discussione («Non è roba da fumetti. Non è uno scherzo», gli viene detto a un certo punto da un nativo). Del resto, la vicenda dei Dene, secondo Sacco, riguarda tutto il mondo occidentale, a partire dall’emergenza climatica. Alla fine del reportage, eccolo percorrere le gallerie di una miniera, ridotta a discarica di triossido di arsenico, sottoprodotto, quanto mai letale, della separazione dell’oro dalla roccia. A centinaia di metri sottoterra, Sacco, che nutre comunque una grande speranza nelle nuove generazioni, capaci di fondere la cultura occidentale con le tradizioni dei progenitori, pone ai suoi lettori questo quesito: «La mia domanda più grande riguarda la mia razza, riguarda noi. Che visione del mondo ha un popolo che non recita né ringraziamenti né preghiere, che prende quel che vuole dalla terra… e la ripaga con l’arsenico?»

Max Frisch, Cosa succederebbe senza la letteratura?

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Ogni sistema sociale, feudale o liberale che sia, elabora una lingua che rafforza il sistema fin nelle questioni di secondaria importanza.

Una lingua del potere, parlata non soltanto dal ceto dominante, una lingua corrente che impariamo da bambini e utilizziamo vita natural durante senza sapere che ci riempie di pregiudizi. Di frasi fatte: un uomo povero, ma onesto! In questa società, forse, l’uomo è povero perché è onesto. Perché invece non diciamo: un uomo ricco, ma onesto? Non si dice… questa lingua, costituita da una quantità di frasi fatte, e di stereotipi, coniata sulla base degli interessi del ceto dominante, questa lingua che impariamo a scuola considerandola l’unica lingua corretta non è però assolutamente la lingua della nostra esperienza. Ci estrania dunque dalle nostre esperienze. Molti non stanno vivendo come viene affermato da questa lingua. Come lo si dice. Ma poiché molti non sanno dire come stanno vivendo, si sentono obbligati a vivere come viene imposto loro da questa lingua del potere. Come si vive. La lingua del potere ha la tendenza a scoraggiarci per assicurarsi la nostra disponibilità. Ci castra, politicamente, giorno dopo giorno – Quel che produce la letteratura: non assorbe gli stereotipi (oppure denuncia lo stereotipo) e cerca la concordanza, che è soggetta al mutamento, tra lingua ed esperienza. Prima di una guerra e dopo una guerra avvertiamo qualche leggero cambiamento. “Guardatevi attorno”, dice Georg Büchner nel suo dramma intitolato DANTON, “tutto questo lo avete detto voi”. Lo scrittore si guarda attorno. Contrapponendo alle frasi fatte un’altra lingua, egli smaschera la lingua del potere alla stregua di lingua del potere, di lingua ingannevole – e in questo vedo già una rilevanza politica della letteratura, di tutta la letteratura, anche se un romanzo o una poesia non affrontano un argomento di carattere sociale.
da Max Frisch, Quadrato nero. Due lezioni sulla letteratura, Gaffi, Roma 2012