Il visionario è l’unico vero realista

(articolo pubblicato sull’«Indice dei libri del mese», 7/8, luglio-agosto 2020; letto in gran parte nel programma radiofonico Pagina Tre, RaiRadioTre: https://www.raiplayradio.it/audio/2020/08/PAGINA-3–Sguardi-obliqui–d7d84f1e-e22b-435b-b453-747f369dd32c.html)

Federico Fellini ha a lungo accarezzato l’idea di portare sul grande schermo Le fiabe italiane di Italo Calvino. Ricorda Goffredo Fofi che il film sarebbe iniziato con un «C’era una volta un re che stava di casa di fronte a un altro re». Di questo progetto però non è rimasta alcuna traccia scritta, ma solo testimonianze di privatissime colazioni di lavoro nel pied à terre del Maestro a Cinecittà. D’altro canto, Le città invisibili sono state probabilmente fonte di ispirazione da un lato per la Venezia immaginaria del Casanova con le acque del Canal Grande ricreate con teli di plastica, dall’altro per la labirintica e onirica Città delle donne, in cui si perde Snaporaz/Mastroianni (peraltro quello delle Città invisibili è un progetto che Calvino sviluppa a partire dalla sceneggiatura di un film dedicato a Marco Polo, per la regia Mario Monicelli, destinato però a rimanere sulla carta). E in omaggio a Fellini, Calvino scrive nel 1974 la celebre Autobiografia di uno spettatore, nata come prefazione al libro Quattro film, che riuniva le sceneggiature dei Vitelloni, La dolce vita, e di Giulietta degli spiriti. Ed è Calvino a suggerire a Damian Pettigrew l’idea di Sono un gran bugiardo, documentario/intervista, in cui l’opera di Fellini viene considerata come il risultato delle sue bugie, cioè di quelle “finzioni supreme”, che rivelano la persona che le ha create. Di Calvino e Fellini è del resto nota la scarsa volontà di raccontarsi fedelmente: «io – confessa lo scrittore – sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò i dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra». Consapevolezza della menzogna che Fellini non sembra avere: «Sì, io i ricordi però guarda che me li invento molte volte. Non riesco più a fare una distinzione con le cose che sono proprio accadute, tanto è vero che mia mamma ogni tanto mi dice: “Ma quando mai tu sei scappato con il circo? Ma quando mai hai fatto…? Ma quando mai sei stato in collegio?” Invece a me pare proprio che è successo, vedi un po’ che cosa vuol dire avere un’immaginazione accesa». Fellini come “grande bugiardo, dunque. E grandi bugiardi, verso sé stessi e verso gli altri, sono a vario titolo i suoi personaggi, da Fausto (Franco Fabrizi) dei Vitelloni a Guido (Mastroianni) di 8 ½, dai truffatori del Bidone al Casanova, solo per citarne alcuni. E bugia è non a caso, una delle voci chiave scelte da Gianfranco Angelucci, amico e collaboratore di Fellini per oltre vent’anni, nel suo Glossario felliniano (Avagliano 2020).

Fellini e Calvino, quasi coetanei, hanno altri significativi punti di contatto biografici. Innanzitutto l’appartenenza a una città di riviera, adriatica per l’uno, ligure per l’altro; una adolescenza segnata dai rituali del regime fascista e da una educazione repressiva e traumatizzante, di stampo religioso per Fellini (quante grottesche figure di religiosi popolano il suo cinema!), di stampo laico, ma non per questo meno rigido, per Calvino («ho conosciuto solo la repressione laica, più interiorizzata e da cui è meno facile liberarsi»). E poi una voglia di raccontare scaturita dalla passione di entrambi per i fumetti, in particolare per le storie illustrate del «Corriere dei piccoli», pubblicate all’epoca senza i balloons, sostituiti da tre o quattro versi in rima baciata, collocati al di sotto di ogni disegno. Topolino, Mandrake il mago, Flash Gordon, il Gatto Felix e Buck Rogers popolano la loro fantasia. «Su quei vecchi giornalini a fumetti – racconta Fellini – la mia generazione ha trovato la possibilità di evadere e di contestare le processioni, le adunate, i campi Dux. […] La vera letteratura americana non è stata solo quella dei Faulkner e degli Steinbeck ma anche quella degli inventori di Arcibaldo, di Petronilla, di Dick Fulmine, di Braccio di Ferro. All’America abbiamo potuto perdonare tutto, anche l’imperdonabile, grazie alle immagini liberatorie che ci ha regalato attraverso i suoi fumetti e il suo cinema».

Fellini e Calvino sono contemporanei della nascita dell’immagine mediatica. Entrambi sono ben consapevoli del fatto che lo sviluppo concomitante del cinema e della stampa illustrata abbia determinato una nuova forma di rappresentazione: è il dispositivo mediatico a creare l’avvenimento e non viceversa. «L’esperienza della mia prima formazione è già quella d’un figlio della “civiltà delle immagini”, anche se essa era ancora agli inizi, lontana dall’inflazione di oggi», scrive Calvino nella “Lezione americana” sulla Visibilità. Anche Calvino ama disegnare: i suoi fumetti finiscono per essere pubblicati sul «Bertoldo», settimanale milanese diretto da Mosca e Metz, nella rubrica il “Cestino”, curata da Giovannino Guareschi (Calvino vince il concorso per la “vignetta più stupida dell’anno”). E poi c’è il cinema, di cui si nutre quotidianamente: in particolare quello hollywoodiano degli anni Trenta, visto già con un piglio da futuro narratore, con una particolare attenzione agli aspetti strutturali e convenzionali del racconto filmico. È dunque l’immagine, fumettistica o cinematografica che sia, a dare l’imprinting al percorso letterario e narrativo di Calvino. «Nell’ideazione d’un racconto – si legge in Visibilità – la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato […]. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé». Anzi, le immagini – osserva Alessandra Sarchi nel suo recente “esercizio di lettura” dedicato a Calvino – sono per lui «carburante per la scrittura», e «oggetto di una riflessione teorica».

Dal canto suo, prima di lanciarsi nel mondo del cinema, Fellini realizza nel 1937 per il cinema Fulgor di Rimini, una serie di caricature di attori famosi e l’anno successivo «La Domenica del Corriere» pubblica le sue prime vignette umoristiche. Trasferitosi nel 1939 a Roma all’età di diciannove anni con la madre e la sorella, si guadagna da vivere come caricaturista (nel 1944 apre nella capitale un negozio, il Funny Face Shop, dove per poche lire disegna le caricature della gente di passaggio) e collabora come vignettista con riviste umoristiche, molto diffuse all’epoca, quali il «420», il «Marc’Aurelio» e il «Travaso». È stata da più parti osservata la corrispondenza in Fellini tra caricatura e concezione del personaggio, oltre all’influenza della comic strip sulla struttura narrativa fortemente frammentata delle sue opere (come ammesso, ad esempio, dallo stesso regista in occasione dell’uscita di Fellini Satyricon, film, a suo avviso, che deve più a Flash Gordon che non agli affreschi di Pompei). Il disegno non rappresenta per Fellini una attività propedeutica alla regia, a differenza di un cineasta come Alfred Hitchcock, che disegna per intero i suoi film, tanto da considerarli finiti prima ancora di girarli. Il disegno è per Fellini, dagli esordi al Libro dei sogni,dalle tavole realizzate da Topor per il Casanova all’incontro con Charles Schultz, fino alla lunga collaborazione con Milo Manara, con cui realizza i graphic novel Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, una pulsione creativa ineludibile. Il mondo felliniano nasce sulla carta e finisce col dare vita a un universo di immagini, a un altrove, in cui realtà e sogno si armonizzano: una allucinazione paradossale, una percezione collettiva di oggetti, persone e luoghi assenti e per di più a “occhi spalancati e chiusi”, Eyes Wide Shut, per dirlo alla Kubrick. Il cinema è un sogno che nel suo farsi presente, è qualcosa di reale che ha effetti reali, è qualcosa che turba, che scuote, colpisce ed aumenta le nostre facoltà conoscitive. «Il visionario – secondo Fellini – è l’unico vero realista», “magnifico paradosso” che Oscar Iarussi elegge a incipit del suo prezioso «dizionarietto portabile» del mondo del regista riminese, Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico (il Mulino 2020).

Tanto Fellini quanto Calvino mostrano una certa diffidenza nei confronti del Neorealismo, cui negano il carattere di “scuola” o di “movimento organizzato e cosciente”. Lo scrittore nella Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno riconduce, come è noto, il suo romanzo di esordio del 1947 al clima generale del dopoguerra, quando «si era […] carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca». Nell’ottica di Fellini invece, il Neorealismo si riduce pressoché esclusivamente al magistero di Roberto Rossellini: «Il Neorealismo è solo ciò che ha fatto Roberto, anzi neppure, un unico film, Paisà. Anche Roma città aperta, per quanto importante era una storia di impianto tradizionale, raccontata secondo le convenzioni di sempre. E i film che sono venuti dopo si sono soltanto sforzati di orecchiare, hanno cercato di ripetere a casaccio una lezione irripetibile». Non a caso, nelle loro opere d’esordio, Calvino racconta la resistenza attraverso gli occhi di un bambino, privilegiando un punto di vista onirico e fiabesco, Fellini la fuga dalla realtà di provincia di una versione moderna di Emma Bovary dallo sguardo infantile, alla volta di un mondo da sogno dei fotoromanzi.

Calvino con la scrittura, Fellini con il cinema mirano a suscitare immagini da dove prima non c’erano oppure a (ri)vedere le immagini già viste sotto una diversa angolazione, cioè “vedere di più”, penetrare così a fondo nelle cose fino a trasfigurarle e pervenire ad un effetto di irrealtà. È lo sguardo calviniano dall’«opaco» verso l’«aprico» (cioè dal mondo nascosto nell’ombra quello illuminato dal sole splendente), al quale rimane fedele anche quando osserva paesaggi artificiali, creati dalla fantasia di altri artisti. È la parabola del signor Palomar, che si presenta come un “uomo cinema”, mosso dalla volontà di osservare quello che è intorno a lui al fine di trovare un’armonia in mezzo ad un mondo «tutto dilaniamenti e stridori». È l’Avventura del fotografo Antonino Paraggi, che rivolge l’obbiettivo della sua fotocamera su tutti quegli aspetti molecolari della vita di ogni giorno, cioè quegli aspetti che sfuggono allo sguardo degli uomini. È la «zona Masina» del cinema felliniano, che consiste, iuxta Calvino, in una visualizzazione infantile, disincantata, precinematografica d’un mondo “altro” (La strada mette in scena il circo e la figura malinconica del clown; Giulietta degli spiriti ha come «dichiarato riferimento figurativo e cromatico le vignette a colori del “Corriere dei piccoli”»).

Sono però poche le occasioni in cui Calvino riflette criticamente sull’opera di Fellini. Il suo primo approccio con La dolce vita è alquanto problematico. In particolare, Calvino, al pari di Alberto Moravia, contesta al film una rappresentazione dell’intellettuale (una novità per il cinema dell’epoca: oltre alla Dolce vita, si pensi a La notte di Michelangelo Antonioni o a Odissea nuda di Franco Rossi) come una figura velleitaria, disperata, talora irrazionalistica, in cui non si riconosce. È quanto avviene con il personaggio di Steiner, intellettuale suicida, interpretato da Alain Cuny, dopo il rifiuto di Elio Vittorini a ricoprire quella parte, ispirata alla figura di Cesare Pavese, compagno di classe dello sceneggiatore Tullio Pinelli al D’Azeglio di Torino, Cesare Pavese. Steiner è «uomo dotato d’ogni bontà e virtù (rappresentato per di più con un’untuosità insopportabile) ma libero pensatore e privo della grazia divina, e quindi […] destinato a trucidare i figlioletti e a spararsi un colpo in fronte!» Nella Autobiografia di uno spettatore Calvino chiarisce la natura dell’anti-intellettualismo di Fellini. Il Maestro contrappone «all’arida lucidità intellettuale raziocinante», «una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell’universo». La traiettoria esistenziale del protagonista della Dolce vita, Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), non rispecchia tanto una vicenda di perdizione, quanto una vicenda di formazione ed emancipazione da una serie di illusioni, quali l’arte, la cultura, il successo, con il raggiungimento di uno sguardo più disincantato, “distante”, e quindi veritiero sulle cose.

Dieci anni dopo l’Autobiografia, Calvino torna a scrivere di Fellini, partecipando al lungo, e articolato, dibattito critico suscitato dall’uscita nel 1983 di E la nave va. «Il viaggio che il film racconta è un funerale. nelle prime sequenze appare un carro funebre che delega alla nave «Gloria N.» la sua funzione d’accompagnare le ceneri della famosa soprano alla loro sepoltura acquatica. Il nero è il colore che domina nell’abbigliamento dei personaggi, come si conviene a una tale cerimonia. […] tutti questi signori non è al funerale della diva che stanno partecipando, ma al proprio». Il naufragio della Gloria N. sintetizza due miti del Novecento: il naufragio del Titanic e l’attentato di Sarajevo. Del resto, quello apocalittico è un tema ricorrente in Fellini: si pensi alla fine del mondo pagano in Satyricon, del mondo putrescente e corrotto dell’Italia fine anni Cinquanta nella Dolce vita e del mondo della giovinezza in Amarcord. Tuttavia – osserva Calvino – in E la nave va Fellini sembra suggerirci che «la fine del mondo è diventata il nostro habitat naturale» e quotidiano. Un habitat da cui è impossibile sfuggire.

Testi citati

Gianfranco Angelucci, Glossario felliniano. 50 voci per raccontare Federico Fellini, il genio italiano del cinema, Avagliano, Napoli 2020 (pp. 296, € 19,00)

Oscar Iarussi, Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico, il Mulino, Bologna 2020 (pp. 248, € 16,00)

Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Bompiani, Milano 2019 (pp.192, €17,00)

Marriage Story

Già nel film, il quarto, che lo ha imposto all’attenzione del grande pubblico, “Il calamaro e la balena”, Noah Baumbach aveva messo in scena la crisi e la separazione di una coppia di intellettuali newyorkesi nella metà degli anni Ottanta, optando per il punto di vista dei loro due figli. E di conflitti familiari è pieno il suo cinema, compreso questo ultimo, bellissimo “Marriage Story”, dove però Baumbach, al contrario dei suoi titoli precedenti, non offre il ritratto di una famiglia bizzarra, disfunzionale, tutto sommato simpatica, ma un imparziale e profondo ritratto, una vera e propria radiografia, del disfacimento di un nucleo familiare, con le relative conseguenze e implicazioni.
Adam Driver e Scarlet Johansson abbandonano i costumi dei mega-franchise in cui sono impegnati (rispettivamente Star Ware e il Marvel Cinematographic Universe) per interpretare una giovane coppia con un figlio. Lui, Charlie, newyorkese, è il regista di una compagnia off-Broadway, di cui lei, Nicole, losangelina, è la prima attrice. Già starlette del cinema collegiale, con una sequenza cult in cui ha mostrato le tette, per amore del marito e dell’arte ha rinunciato alla fama e ai soldi delle grandi produzioni e si è trasferita a NY. Erano considerati una coppia perfetta, tutti i loro amici pensavano che mai si sarebbero lasciati. Invece hanno deciso di separarsi, forse perché hanno la sensazione di non essere più innamorati. Eppure sono legati da un sentimento profondo, si rispettano e si stimano, ma sentono che la loro vita non può continuare insieme.
All’inizio del film la loro relazione è già agli sgoccioli. Hanno deciso di separarsi e li troviamo da un mediatore matrimoniale nel tentativo di negoziare la loro separazione in modo amichevole e senza nuocere troppo al figlio. Tuttavia le loro buone intenzioni si scontrano con le regole del percorso legale alla base del divorzio. “Questo sistema premia i cattivi comportamenti”, dice Laura Dern nei panni della panterona avvocatessa divorzista di Nicole, Nora Fanshow. “Alla fine del processo vi odierete”, le fa eco Jay Marotta, Ray Liotta, il legale di Charlie. I due avvocati, istrionici e cinici, trasformano i loro clienti da attori teatrali ad attori della vita, costringendoli a recitare un ruolo preciso, quello del genitore ineccepibile vittima del coniuge. Tutto l’iter giudiziario del divorzio si fonda sull’aspetto performativo, che inchioda ognuna delle parti in causa a un ruolo, persino estraneo alla propria reale natura. Ma “Marriage story” non è solo un dramma sulle conseguenze del divorzio: il tono Bergman, suggerito già nel titolo, cede a volte il passo al tono Allen, grazie anche ai personaggi secondari, interpretati da caratteristi eccezionali, come Wallace Shawn, Alan Alda, e la Julie Hagerty dell’”Aereo più pazzo del mondo”, capaci di offrire momenti di grande ilarità. In magico equilibrio tra commedia e dramma, “Marriage Story” ha numerose scene da antologia. Ricordiamo tra tutte, la simulazione della testimonianza al processo, la visita della assistente sociale che deve assistere al pranzo di Charlie con il figlio, il formidabile monologo di Laura Dern (che mostra qui la stessa energia esibita in “Big Little Lies”, e Adam Driver, crooner improvvisato.
Un gran bel film.

L’immortale

Ogni stagione di “Gomorra” si è conclusa con la morte violenta e inaspettata di uno dei protagonisti. Quella più illustre e choccante è avvenuta alla fine della terza, quando Ciro Di Marzio, detto l’immortale (perché ancora infante, era miracolosamente ritrovato vivo sotto le macerie causate dal terremoto dell’Irpinia), era stato ucciso da Genny. Ebbene, Ciro non è morto: il colpo sparatogli a bruciapelo non ha raggiunto il cuore, pur andandoci vicino. La sua resurrezione – gli spiega Don Aiello – gli permette quello che per altri è solo un sogno: ricominciare da capo. Dal momento che la vicenda di Gomorra è andata avanti, gli sceneggiatori, per reinserire il personaggio nella continuity della serie, ne hanno trasferito le gesta in Lettonia, a Riga. Qui Ciro viene mandato a lavorare come intermediario tra la camorra napoletana e la mafia russa, a sua volta in guerra con la criminalità locale. Per far arrivare la droga, si appoggia all’attività di sartoria contraffatta di Bruno, cioè il mentore della sua infanzia criminale a Napoli. Una collaborazione che fa riaffiorare in lui molti ricordi. Così il film si sviluppa su due piani temporali, quello contemporaneo alla quarta stagione, dove Ciro si barcamena tra clan rivali, servitore di due padroni, che porterà alla reciproca distruzione, e quello che funge da “origin story”. Proprio quando racconta l’infanzia dell’Immortale nella Napoli degli anni Ottanta il film vive i suoi momenti migliori grazie all’empatia che è capace di suscitare il piccolo Giuseppe Aiello (molto somigliante al Totò Cascio di “Nuovo cinema Paradiso”): il suo rapporto con Bruno, sorta di padre putativo, e la sua attrazione nei confronti di Stella, giovane cantante neomelodica, sono tratteggiati con realismo, sensibilità e intelligenza. Ovviamente non mancano sparatorie, esplosioni, scene d’azione e colpi di scena, con Ciro che si muove silenzioso, imbronciato e monoespressivo: un immortale che è tale perché è già morto, avendo perso tutti gli affetti. Operazione di marketing fondata su un crossover tra cinema e televisione – produce e distribuisce in 450 copie Sky – mai vista prima in Italia, “L’immortale” rappresenta una puntata extra e maxi di “Gomorra”, di cui riprende gli aspetti principali del franchise: colonna sonora dei Mokadelic, stesso lavoro sul colore, scenari dominati da strade spettralmente deserte, ambienti interni dalla forte connotazione simbolica, dialoghi fondati su battute epigrafiche, frase-stacco di macchina da presa. In televisione nel contesto più ampio della serie funziona, al cinema sa di minestra riscaldata.

Dov’è il mio corpo?

“Dov’è il mio corpo?” (ma il titolo originale recita “J’ai perdu mon corps”, cioè “Ho perso il mio corpo”, senza alcun punto interrogativo) è stato il primo film d’animazione a vincere la Seimane de la Critique a Cannes 2019, per poi aggiudicarsi il premio della giuria e quello del pubblico al Festival di Annecy. Tratto dal romanzo “Happy Hand” dello scrittore Guillaume Laurant, che lo ha sceneggiato con il regista Jérémy Clapin, famoso illustratore francese, qui alla sua opera prima, è la storia di una mano umana, mozzata, che fugge dal laboratorio dell’ospedale per andare alla ricerca del proprio corpo: una vera e propria odissea lungo i tetti, le strade e i sotterranei, a scansare le insidie di topi, piccioni e agenti atmosferici. È la mano di un ragazzo di origine magrebina, Naoufel, giunto in Francia con grandi speranze, ben presto disattese. Una serie di flashback ci fa conoscere la sua storia. Timido e impacciato, Naoufel, che sognava da bambino di di fare il pianista o l’astronauta, consegna, piuttosto maldestramente in verità, pizze a domicilio, per poi lavorare come apprendista nella falegnameria dello zio di Gabrielle, di cui è innamorato. E proprio qui perderà la mano per un incidente sul lavoro.

Siamo ben lontani dalle atmosfere horror del film d’esordio di Oliver Stone o della commedia nera stile Famiglia Addams. “Dove è il mio corpo?” è una fiaba delicata (lo sceneggiatore Guillaume Laurant è un collaboratore di Jean-Pierre Jeunet, firmando, tra gli altri, lo script de “Il favoloso mondo di Amelie” o de “Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet”), in cui le tematiche universali dell’amore, della speranza e del sogno, si alternano alla analisi sociale. Il tutto con una scelta di animazione tradizionale, che rinvia alla tradizione transalpina della “linea chiara”, dove l’animazione 3D e i disegni 2D si alternano con efficacia. Curiosa l’idea di ribaltare la teoria del corpo che mantiene il ricordo dell’arto perduto, in quella dell’arto che conserva la memoria del corpo.

Un giorno di pioggia a New York

Lui, lei e New York. Lui, Gatsby, nome davvero impegnativo, studente di un college privato e al tempo stesso fortissimo giocatore d’azzardo grazie a una geniale mente matematica, è un rampollo della grande borghesia wasp newyorkese («Gente fuori mercato che parla di libri fuori catalogo»), quasi un dandy. Lei è la biondina Ashleigh, sua collega di college, figlia di ricchi banchieri di Tucson, Arizona («Non siamo repubblicani, è un caso che siamo ricchi», dice la ragazza, quasi a giustificarsi), aspirante giornalista, non particolarmente preparata (annovera Kurosawa tra i registi europei). I due giovani decidono di trascorrere un fine settimana a Manhattan. La città battuta dalla pioggia, complicherà e cambierà la loro relazione.
Realizzato nel 2017 e bloccato per due anni in seguito alle assurde accuse di molestie sessuali rivolte ad Allen per fatti risalenti al 1992, “Un giorno di pioggia a New York” è una commedia colta e deliziosa, che guarda ai grandi modelli di Lubitsch e di Cukor e omaggia, tra gli altri, De Sica e Renoir. Molti i momenti davvero spassosi (Ashleigh ha il singhiozzo ogni volta che un uomo le piace, la risata della fidanzata del fratello di Gatsby), che si alternano ad altri malinconici e perfino drammatici. È il caso del confronto finale campo-controcampo tra Gatsby e l’odiata madre, che ha sempre cercato di imporre al figlio dei codici comportamentali fondati sull’etichetta. È una delle vette dell’ultimo cinema di Woody, una sequenza che sembra uscita dai film del suo periodo bergmaniano, quello di “Interiors” e “Un’altra donna”. Ma questo film è un nuovo atto di amore di Allen nei confronti di NY. Non a caso, Gatsby, ennesimo alter ego di Allen si muove come un flaneur tra le vie di Manhattan, si reca nei vecchi hotel, in luoghi storici del secolo scorso, come il Bar Bemelmans al Carlyle Hotel, permanendo in uno stato sospeso tra sogno e ricordo. Anche se non manca l’ironia: «Soho, pieno di creativi, ti piacerà. – spiega ad Ashleigh – Poi però è diventato troppo costoso, quindi si sono trasferiti a Tribeca, ma anche lì è diventato troppo costoso, quindi sono andati a Brooklyn. Tra poco torneranno da mamma e papà». Ad Ashleigh invece si aggira per la NY più fatua, quella delle luci della celebrity. La vediamo intervistare il regista di culto, depresso e in crisi d’ispirazione, il suo sceneggiatore in crisi con la compagna che lo tradisce e il divo latinoamericano con il quale inizia a flirtare, fino al confronto finale al momento dell’aurora. Curatissime le scenografie di Santo Loquasto e splendido il lavoro di Vittorio Storaro, le cui luci fanno pendant con lo stato d’animo dei personaggi.
Peccato per gli americani che non potranno vedere questo film.

Dove la terra trema

Distribuito dalla piattaforma Netflix e prodotto da Ridley Scott, “Dove la terra trema”, di Wash Westmoreland, regista e sceneggiatore (autore, tra l’altro, di Non è peccato – La Quinceañera, Still Alice e Colerte), è un’opera ambiziosa, che intende far ricorso ai cliché del noir per sviluppare una serie di temi, quali il rapporto tra la cultura occidentale e quella giapponese, il senso di colpa, la gelosia e il voyeurismo.
Tratto dall’omonimo romanzo di Susanna Jones, il film è ambientato nella Tokyo del 1989. Vi si racconta la storia di un triangolo amoroso tra l’introversa giovane svedese, Lucy Fly, che per sfuggire ai propri fantasmi del passato, si è trasferita nella capitale nipponica, dove si è ben inserita, lavorando come traduttrice (la vediamo impegnata al lavoro su un frame di Black Rain-Pioggia sporca, al contempo documento d’epoca – il film è appunto del 1989 – e omaggio al grande Sir Ridley), l’esuberante, e lost in translation, Lily, americana, e il giapponese Teji, tanto affascinante quanto misterioso, appassionato di fotografia. Quando Lily scompare, Lucy viene sospettata del suo omicidio. Il tutto tra una scossa e l’altra di terremoto, immagini da cartolina dei luoghi più affascinanti del Giappone a partire dal monte Fuji, chiacchiere sulla capacità della macchina fotografica di catturare l’anima dei suoi soggetti, una perdita traumatica della verginità, una punta di lesbismo, un poliziotto anziano calmo e riflessivo e uno giovane e cafone, personaggi poco abbozzati e pesanti deragliamenti di sceneggiatura.