Andrea Bajani, Dimora naturale

(versione più estesa dell’articolo pubblicato sull’«Immaginazione», 319, settembre – ottobre 2020)

Nella grande arca della letteratura, esseri umani e animali sono stati spesso compagni di viaggio e hanno condiviso destini paralleli. Ne sono testimonianza le innumerevoli presenze che da Omero in poi costellano la nostra storia culturale e che si declinano in numerose e complesse varianti polarizzate tra antropocentrismo ed ecocentrismo. Simili all’uomo e nello stesso tempo diversi, gli animali sono ciò che più lo ricordano per l’appartenenza allo stesso regno dell’essere e per il rapporto con la natura, tanto da assumere ora connotati antropomorfi ora caratteristiche misteriose e divine ora funzioni totemiche. Insomma quella dell’animale è una figura proteiforme, che, una volta manifestatasi nella memoria letteraria, ha acquisito, in virtù della somiglianza nella differenza, la funzione privilegiata di alter ego dell’uomo. Giorgio Agamben nel saggio L’aperto. L’uomo e l’animale (2002) osserva come la condizione ontologica umana può essere equiparata a quella di «un animale che ha imparato ad annoiarsi, si è destato dal proprio stordimento e al proprio stordimento. Questo destarsi del vivente al proprio essere stordito, questo aprirsi angoscioso e deciso, a un non-aperto, è l’umano». Per vivere «umanamente», l’uomo non deve annichilire lo spazio animale che gli compete, deve solo sospendere la condizione di aperto/chiuso, impadronirsene senza annientarla, custodirla.

La riflessione di Agamben viene in mente scorrendo le pagine del nuovo libro di poesia di Andrea Bajani, Dimora naturale, il secondo dopo Promemoria (2017). Si tratta di una silloge, anzi di un vero e proprio canzoniere composto da cinquanta ottave, che si discostano dalla grande tradizione dei cantari e dei poemi cavallereschi, attraverso la rinuncia alla rima: come è noto, nell’ottava toscana i primi sei endecasillabi sono a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata, ma diversa da quella dei versi precedenti. L’esito è rappresentato da liriche dalla forma piana, essenziale e discorsiva, avvolte da un velo di ironia. 

Narratore con sguardo poetico o, se si preferisce, poeta con lo sguardo del narratore – si pensi ai racconti brevi della Vita non è in ordine alfabetico (2014), che hanno, non a caso, nei Sillabari di Goffredo Parise, il loro modello dichiarato  o alla scansione ritmica del racconto per ‘stanze’ del romanzo Un bene al mondo (2016) – Bajani dà vita in Dimora naturale a un bestiario formato da animali reali, raffigurati però spesso in gruppo, così da sottrarre loro materialità e corporeità: entità astratte, visioni fantasmatiche, capaci di modificare, dilatandola e/o restringendola, la percezione del vivere dell’uomo. Ridotto a «puro sguardo», scomparso nel paesaggio (35), il poeta passa in rassegna i felini dei documentari visti sullo schermo del computer (1), i cani che forse «prendono / i film per documentari sugli umani» (49), le «mosche dipinte / negli orinatoi» (3), gli uccelli che «da settimane fanno disegni sopra i tetti» (11), i lupi che «vanno dentro e fuori dalle / fiabe, vivono nel bianco della carta / e in quello della neve». E poi il falco, «di cui si rinvengono le ossa / nella fusoliera» (42), le «voraci papere del lago» (24), la zanzara che “ricompare” a fine anno (47) e i polpi, che «avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, distribuito dappertutto» (8). Fino ad arrivare all’uomo, il quale si ritiene superiore a ogni altra forma di vita, tanto da scambiare come un punto di forza quella che in realtà è una condanna: «l’inserimento del cervello dentro / il cranio» (30). 

L’uomo è una specie tra le altre. Trae conforto dall’entrare in farmacia, «negozio con dentro degli attrezzi / per riparare il dolore della specie» (37). Chi lo ha definito bipede, «era in malafede»: il suo «è soltanto equilibrismo», «una prodezza trattenuta», passata la quale, torna «a quattro zampe» (16) «Essere umani è solo una radura: / la paura riporta in un istante alla foresta dell’essere viventi» (28). Mentre è «proprio degli umani / credere al divino, mettersi a pregare, / pensarsi niente davanti all’universo», gli animali, privi di parola come sono, rendono materico il mistero della vita: per loro «finire nel presepe con Gesù bambino, / o dentro l’arca, è soltanto tempo perso» (41). A volte però uomo e animale condividono la stessa condizione di spaesamento, come il gabbiano che scambia «una palazzina anni cinquanta / per la propria dimora naturale», mentre è l’uomo a «ignorare / quanto dista il litorale» (13).

Così non resta che affidarsi alla poesia, «strazio vocale di ogni io» (5), capace di scuotere e persino distruggere schemi codificati e imposti: possederla è cosa non facile, trattandosi – si legge nella cinquantesima ottava, significativamente contrassegnata dal segno dell’infinito, al contrario delle precedenti, tutte numerate da 1 a 49, nonché preceduta e isolata da una pagina bianca – di «un asteroide disperso, non monitorato», visibile ad occhio nudo ogni imprecisabile numero di anni. Un asteroide che permette di interfacciarsi con le gioie e i misteri della vita, coglierne i nessi e raggiungere magari quella «gentilezza, che è senza / spiegazioni, non ha ratio»: «è un accadimento di natura, è come / un biancore che si spezza» (31).

Una setta, una donna e una storia americana

(articolo pubblicato sulla «Gazzetta del Mezzogiorno del 1 settembre 2020)

Studioso di semiotica e docente di Teorie e tecniche delle scritture all’Università di Torino, Alessandro Perissinotto nel suo ormai cospicuo corpus narrativo – sedici romanzi: il primo, L’anno che uccisero Rosetta è del 1997 – ha sperimentato le varie potenzialità del poliziesco, dalla variante storica degli esordi nel segno di Leonardo Sciascia, a quella contemporanea – si pensi alla trilogia gialla con protagonista la psicologa detective Anna Pavesi – fino al police procedural dei romanzi ‘estoni’, firmati con l’alias Arno Saar. In seguito, lo scrittore torinese si è sottratto alle convenzioni del genere e si è dedicato a quelli che egli stesso ha definito – sulla scia di Georges Simenon – “romanzi duri”: «duri per i temi trattati, duri per la profondità di analisi sociale, duri per il tipo di scrittura. Non sono migliori o peggiori dei polizieschi, sono solo romanzi». Tuttavia entrare o uscire dal genere, scrivere romanzi gialli o “romanzi duri”, come Quel che l’acqua nasconde, Le colpe dei padri e Il silenzio della collina, sono opzioni che Perissinotto considera sempre funzionali a un progetto narrativo volto a far riemergere alla superficie della memoria collettiva quelle parti di un passato controverso, la cui rimozione può generare talora il ripetersi dei medesimi errori.

Nel suo nuovo romanzo, La congregazione, Perissinotto racconta una “storia americana”. Ci porta infatti a Frisco, Colorado, paese delle Rocky Mountains a tremila metri di quota e a un centinaio di miglia da Denver. Qui, in una casa da poco ereditata dalla zia, si trasferisce Elizabeth, spogliarellista ormai a fine carriera ma ancora piacente, per scontare la pena che le è stata inflitta per guida in stato di ebbrezza (la seconda volta in un anno): ventiquattro mesi con la cavigliera elettronica e l’obbligo di non superare i confini del villaggio. Per la donna sembrerebbe l’inizio di una nuova vita: un lavoro presso il locale distributore di benzina, una casa, una comunità semplice e accogliente. Un giorno però un passato da tempo rimosso torna a gettare la sua ombra sinistra su di lei. Un passato legato a un terribile fatto di sangue, avvenuto quaranta anni prima e a migliaia di chilometri di distanza. Un passato non di fantasia, ma realmente accaduto: la strage di Jonestown, Guyana, del 18 novembre 1978, quando 909 adepti della setta del “Tempio del popolo”, tra cui 219 bambini, morirono in un suicidio-omicidio di massa, ingerendo una bevanda di frutta contente cianuro, su ordine del capo e fondatore, James Warren Jones. Questi negli anni Cinquanta aveva fondato la Congregazione a Indianapolis, per poi trasferirla in California e infine nel 1977 nella giungla del nord-est della Guyana per sfuggire alle inchieste dell’FBI, seguite alle numerose denunce di uso di droghe, circonvenzione di incapace, sequestro di persona e reati finanziari. Presentata come una sorta di Eden, la comunità del “Tempio del popolo” si reggeva in realtà sullo sfruttamento quasi schiavistico del lavoro degli accoliti e su un sistema quanto mai coercitivo. Coloro i quali manifestavano apertamente il desiderio di tornare a casa o criticavano le condizioni di vita nella comunità, venivano assegnati a “squadre di rieducazione” e costretti per giorni interi a lavori pesanti, oltre ad essere sottoposti a pubbliche umiliazioni e nel caso delle donne, a ripetuti abusi sessuali. La decisione ‘finale’ fu dettata dal fatto che il Reverendo si era visto ormai messo alle strette dalla commissione d’inchiesta presieduta dal deputato democratico Leo Ryan, che finì ucciso con la sua delegazione in un conflitto a fuoco nell’aeroporto di Port Kaituma, poco prima che fosse dato inizio alle pratiche del suicidio. In 167 sopravvissero al massacro. Tra questi – e torniamo alla finzione narrativa – Elizabeth, che quaranta anni dopo, mentre è al lavoro, viene casualmente riconosciuta da qualcuno proveniente dal suo stesso passato. Un qualcuno che intende farle rivivere quella «vita che aveva tenuto nascosta a chiunque». 

Perissinotto struttura il racconto intrecciando abilmente tre linee temporali, che fanno confluire a poco a poco, i destini dei personaggi in un punto di soluzione finale. Si realizza così un andirivieni tra più livelli temporali e spaziali, dove la drammaticità delle storie e l’incombere del pericolo si intersecano senza soluzione di continuità. Ne deriva una successione di capitoli che alternano di continuo passato (ricostruzione della vicenda di Quaranta anni prima), presente (l’Adesso che sta vivendo Elizabeth, nascosta nella miniera per sfuggire ai sicari e a un destino di morte) e il passato prossimo, a partire dalle Sette settimane prima, quando la protagonista arriva a Frisco. Un abile montaggio narrativo cui fa da pendant la capacità dello scrittore torinese di coniugare il thriller con il romanzo storico e la detection, anche attraverso il ricorso a ‘effetti speciali’ di realtà, quali gli stralci degli atti di un seminario della Rutgers University sulla strage di Jonestown nella stampa estera dell’epoca. A ciò si accompagna la precisa descrizione della cittadina americana e della sua vita quotidiana. Qui vive una varia umanità che sembra uscita da un film dei fratelli Coen, come, ad esempio, Fargo. Pensiamo allo sceriffo Gordon, al “cocco di mamma” Brendam e soprattutto al giovane Apiatan, con cui la protagonista stabilisce un rapporto via via sempre più intimo e tenero, nonostante la notevole differenza d’età. Del resto, quanto è successo al presidente francese e a sua moglie, sembra a Elizabeth una cosa bella, una «grande possibilità». 

Era “solo un ragazzo”

(articolo pubblicato con qualche lieve modifica sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 14 ottobre 2020)

Elena Varvello elegge a epigrafe del suo nuovo romanzo, “Solo un ragazzo”, un celebre verso di Emily Dickinson, «Tell all truth, but tell it slant»: «Di’ tutta la verità, ma dilla obliqua». Fare ciò consente di confrontarsi con quegli aspetti del reale da cui si distoglie lo sguardo perché catalogati come osceni. Vale a dire le esperienze estreme della nostra vera vita, emotiva e intellettuale, quelle che il discorso sociale non integra per la loro scomodità, quali l’anomalia, il debordante e soprattutto il ‘cadavere’. Non quello falsificato con cui gioca lo spettacolo televisivo delle ‘cronache in diretta’ dei telegiornali, e neppure quello che manipola la società nel suo terrore puerile della morte. Ma appunto, il cadavere ‘vero’ della persona amata, di un figlio o di un fratello, che è ‘solo un ragazzo’. Un ragazzo che, nonostante il caldo, porta la felpa con il cappuccio sollevato anche d’estate. Un ragazzo che incomprensibilmente entra di notte in casa d’altri per rubare cose da nulla, inutili. Un ragazzo che da studente modello sempre sorridente, si trasforma in un freak, percepito dalla comunità come un delinquente «violento e imprevedibile», persino «rabbioso». Un ragazzo che decide di togliersi la vita senza un motivo apparente.

Come già nel notevole “La vita felice” (2016: best seller in Gran Bretagna nel 2018, unico italiano insieme alla Ferrante), la Varvello orienta ‘obliquamente’ la propria scrittura per esplorare l’intimo e coglierne l’impossibile e l’insostenibile. Scandaglia quella ferita interiore con cui gli esseri comunicano tra loro e si trovano restituiti alla bellezza della notte. Solo un ragazzo è una ‘favolaccia’ – ci sono un bosco, una capanna, un fiume, un ‘cappuccetto nero’, una filastrocca macabra – una storia ‘nera’ di assenze e di mancanze: la rappresentazione di un mondo strabordante di contraddizioni su cui aleggia un’aria di irrimediabile disperazione. Un mondo in cui sembra impossibile intervenire poiché tutto è già scritto, tutto è destinato a succedere e a tornare con maggiore insistenza, senza che nessuno possa rendersene conto. Inizia esattamente come finisce e nel mezzo vengono racchiusi tutti gli errori, gli abbagli, i rimpianti e le sofferenze, su cui si continuerà a cadere.

La Varvello racconta la disfatta di una famiglia ‘normale’, che dopo la notte maledetta del 1989, convive con un lutto tanto terribile quanto incomprensibile, o meglio, tanto terribile proprio perché incomprensibile: «Amare una persona e non poter fare nulla per impedire di svanire. O non capire in tempo – prima che fosse troppo tardi – di che avesse bisogno, quali segreti nascondesse». Da quel momento nulla è stato mai come prima. La madre Sara – personaggio tratteggiato magistralmente, quasi simenoniano – si è chiusa sempre più in sé stessa, mai abbandonata dal dolore, tanto da non riuscire più ad amare le figlie e il marito («Non usare mai più quella parola. Amore. Non con me. Non la sopporto più»). Il padre, Pietro, cerca di tirare avanti, tenta invano una nuova relazione con la giovane collaboratrice scolastica della scuola dove insegna. Ma ogni mattina si sveglia convinto che suo figlio stia dormendo in camera sua. E poi le due sorelle, Angela e Amelia, dalle vite tanto diverse, cresciute senza l’affetto e la guida di una madre chiusa nella sua sofferenza. Personaggi questi – frutto di una intensa e sorvegliatissima elaborazione artistica e psicologica – sui quali aleggia come un fantasma, quel figlio che viene percepito come presente, ma che non si riesce a chiamare con il suo nome. Quel ‘ragazzo’ che non si è riusciti a comprendere. Quel ‘ragazzo’ che non era solo un ‘ragazzo’.

Al magma caotico e nebuloso dei pensieri e delle azioni dei personaggi fa da pendant la scomposizione del romanzo in quadri narrativi, leggibili anche singolarmente come racconti, ognuno dei quali fotografa momenti di vita di questo o di quel personaggio dopo la notte della tragedia. Lo stile è serrato e giocato, secondo la lezione di William Trevor, su omissioni e sottrazioni, su rari e progressivi indizi e su andirivieni temporali. Al lettore il compito di ricostruire la fabula e di ricomporre i pezzi sparsi in giro di «una cosa rotta». Pezzi di una verità che è possibile riattaccare, sia pure obliquamente, attraverso gli strumenti della letteratura.

Starnone: una “confidenza” per la vita

(articolo pubblicato su «A naso», dicembre 2019)

“L’amore, che dire, se ne parla tanto, ma non credo di aver usato spesso la parola, ho l’impressione, anzi, di non essermene servito mai, anche se ho amato, certo che ho amato, ho amato fino a perdere la testa e i sentimenti”. Inizia così il racconto del protagonista del nuovo romanzo di Domenico Starnone, Confidenza (Einaudi), Pietro Vella, napoletano, insegnante di lettere in un liceo della Roma degli anni Ottanta, assurto a una certa notorietà grazie a un piccolo saggio militante sul sistema Scuola. L’uomo intreccia una relazione con una studentessa universitaria, dieci anni più giovane di lui, Teresa Quadraro, che è stata una sua alunna brillante ed esuberante al liceo. Il loro è un rapporto turbolento, fatto di “reciproche umiliazioni” e “reciproche esaltazioni”, di separazioni e ricongiungimenti. Dura tre anni. Ma i “lacci” tra loro due non si sciolgono del tutto: la loro storia si muta in un “matrimonio etico” (così lo definisce Teresa), fondato sulla sorveglianza reciproca a distanza tramite uno scambio di lettere scritte (e questo anche dopo l’avvento delle e-mail: proprio come nella corrispondenza tra Marco e Luisa nel Colibrì di Sandro Veronesi), dal momento che la donna, destinata ad una carriera straordinaria di scienziata, si trasferisce in America. A ‘garanzia’ di ciò una “confidenza” fatta tempo prima, quando l’uno ha confessato all’altra e viceversa, la cosa più terribile che ricorda di aver fatto in vita: sappiamo che si tratta di una cosa indicibile, vergognosa per lui, triste per lei. Questo li terrà per tutta la vita sotto scacco reciproco. Se uno dei due sgarra, “l’altro ha il diritto di dire a chiunque: ora ti spiego io chi è veramente quest’uomo, chi è veramente questa donna”. Finita la storia con Teresa, Pietro si lega a Nadia, sua collega, professoressa di matematica con ambizioni frustrate di carriera accademica. La sposerà e da lei avrà tre figli. Lo ritroveremo ultrasettantenne, tranquillo pensionato, nonno e marito affettuoso ed “empatico”, in attesa, suo malgrado, di una prestigiosa onorificenza da parte della Presidenza della Repubblica.

Con Confidenza Starnone continua con la consueta grande raffinatezza di scrittura, il suo viaggio nel microverso dei sentimenti umani e delle relazioni tra le persone e aggiunge alla sua galleria il ritratto memorabile di un uomo “spaventato”, afflitto da un male oscuro, cui dà per ingannare, soprattutto sé stesso, spiegazioni etiche e sociologiche. Strutturato sulla base di tre racconti, ognuno con un punto di vista diverso, quello di Pietro, della figlia di lui, Emma, di Teresa, e con una forte ellissi temporale tra il primo e gli altri due, quando ritroviamo Pietro anziano, settantenne, felice nonno di numerosi nipotini, Confidenza nega l’oggettività della narrazione. La vita di Pietro, i suoi amori, le sue scelte, il suo sentirsi inadeguato (“non tolleravo niente che mi mettesse di fronte al fatto di non essere perfetto”), le difficoltà della vita matrimoniale, le invidie sul lavoro e in casa (Nadia, una volta frustrate le sue ambizioni lavorative, gli rinfaccia di essere un padre e un marito assente e di dovere parte del successo letterario a lei e ai suoi sacrifici), ebbene, tutti questi elementi assumono sfumature diverse a seconda che a raccontarli sia l’adorante figlia Emma, giornalista nevrotica, o la stessa Teresa, che nega o quanto meno sminuisce alcuni dettagli del “primo racconto”, quello di Pietro.

Quello che emerge è da un lato il fallimento di un legame basato sulla “confidenza”, sulla “pedagogia dello spavento”, invece che su quella dell’affetto, dall’altro la difficoltà di essere assertivi, l’incapacità di perseguire i propri obiettivi con passo sicuro e deciso: Pietro alla prima magagna, alla prima richiesta di “cedimento servile”, si tira indietro, si chiude nel silenzio. In altre parole, non riesce a vivere una vita all’unisono con il proprio desiderio. Da qui l’insoddisfazione e quel tarlo invisibile, che esige perentoriamente ascolto. Il desiderio crea tentennamenti, fa paura. Seguirlo non è proprio passeggiata, una cosa semplice, senza impedimenti. Davanti all’oggetto del desiderio ci si angoscia. Si è presi da dubbi, indecisioni. Quelli che affliggono Pietro, prigioniero di una ossessione senza rimedio. L’ossessione provocata da quella “lava di vita grezza che brucia vita fine”, da quella “eruzione che cancella la comprensione e la pietà, la ragione e le ragioni, la geografia e la storia, la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, l’eccezione e la regola”, cioè da quello che chiamiamo amore.

Il popolo dei Dene, nel Canada di boschi e ghiaccio

(Questo articolo è uscito sul «manifesto» del 29 agosto 2020)

«Tributo alla terra», l’ultimo lavoro di graphic journalism di Joe Sacco edito da Rizzoli Lizard

Nel suo ultimo libro, Tributo alla terra (Rizzoli Lizard, traduzione di Boris Battaglia e Pasquale La Forgia), Sacco compie invece un viaggio nelle regioni boreali e artiche del Canada: terre di boschi e di ghiaccio (in inverno la temperatura arriva a raggiungere i quaranta gradi sotto zero) tanto vaste quanto difficili da raggiungere. Qui vive fin dalla notte dei tempi, la popolazione nomade dei Dene, gli aborigeni canadesi, che si sono sempre considerati figli della terra. La terra si prega e si paga» è da sempre il loro credo. Credo inconciliabile con le esigenze politiche ed economiche del mondo ‘esterno’. L’industria estrattiva facendo ricorso al fracking, una procedura che consiste nell’iniettare nel sottosuolo ad altissima pressione, una miscela tossica di acqua, sabbia e prodotti chimici, oltre a causare danni irreversibili all’ecosistema, ha acuito nei territori i problemi sociali, favorendo la diffusione endemica di fenomeni come l’alcolismo, la prostituzione e la violenza domestica.

Sacco racconta come il governo canadese ha portato avanti un processo di sradicamento e distruzione identitaria dei nativi, attraverso il sistema delle Residential Schools. In questi convitti religiosi, cattolici o protestanti, in realtà dei veri e propri piccoli lager, attivi per oltre centocinquanta anni fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, furono portati in modo coattivo dalle autorità, bambini e ragazzi, strappati alle loro famiglie. Le vicende delle Residential Schools sono state peraltro segnate da violenze, abusi sessuali e morti. Fatti su cui ha indagato la Truth and Reconciliation Commission, istituita nel 2008 sul modello di quella del Sudafrica post Apartheid. «Circa 150mila bambini indigeni frequentarono i collegi canadesi. Più di 8000 (il quattro per cento) morirono per malattia, negligenza, abusi o altra cause dovute alla carenza del sistema. Ma i corpi spezzati e traumatizzati dei bambini erano parte di un piano più grande»: un “genocidio culturale”, volto a porre fine all’esistenza dei popoli aborigeni come entità legali, sociali, culturali e religiose e il loro, per così dire, assorbimento (risorse comprese ovviamente) nelle strutture dello stato canadese.

Sacco, come d’abitudine fornisce sempre al lettore riferimenti storici, geografici e culturali precisi e delinea minuziosamente la cornice all’interno della quale muove la sua narrazione. Oltre che giornalista scrupoloso e preparato come pochi, l’autore di Palestina è un disegnatore straordinario, capace da un lato di comporre tavole panoramiche dettagliatissime di vita corale e industriale, bravo dall’altro nel restituire al meglio l’emotività dei suoi numerosi intervistati. In queste tavole Sacco fa virare il suo tratto verso un marcato espressionismo fortemente chiaroscurato, riprendendo la lezione di Robert Crumb – grandi bocche, grandi sorrisi e grandi occhi – con inquadrature spesso distorte. Come Michael Moore nei suoi film – ma decisamente meno ingombrante e saccente – il Sacco personaggio si presenta come un reporter, a volte goffo e confuso, spesso dubbioso («Che differenza c’è tra me e una compagnia petrolifera? Siamo qui tutt’e due per portare via qualcosa»), molto attento nell’ascoltare i testimoni, da cui a volte si lascia mettere in discussione («Non è roba da fumetti. Non è uno scherzo», gli viene detto a un certo punto da un nativo). Del resto, la vicenda dei Dene, secondo Sacco, riguarda tutto il mondo occidentale, a partire dall’emergenza climatica. Alla fine del reportage, eccolo percorrere le gallerie di una miniera, ridotta a discarica di triossido di arsenico, sottoprodotto, quanto mai letale, della separazione dell’oro dalla roccia. A centinaia di metri sottoterra, Sacco, che nutre comunque una grande speranza nelle nuove generazioni, capaci di fondere la cultura occidentale con le tradizioni dei progenitori, pone ai suoi lettori questo quesito: «La mia domanda più grande riguarda la mia razza, riguarda noi. Che visione del mondo ha un popolo che non recita né ringraziamenti né preghiere, che prende quel che vuole dalla terra… e la ripaga con l’arsenico?»

Carlotto, tra indizio e trasgressione

(Questo articolo è uscito sul «manifesto» del 17 luglio 2020)

Per festeggiare i suoi venticinque anni di scrittura (risale al 1995 il romanzo di esordio Il fuggiasco per i tipi della e/o) Massimo Carlotto ha accolto l’invito della casa editrice CentoAutori a raccogliere in volume sette racconti, scritti per lo più negli anni Duemila e apparsi in antologie e quotidiani, tutti poco conosciuti, un paio pressoché inediti. È nato così Variazioni sul noir, titolo che richiama quel procedimento compositivo, proprio del linguaggio musicale, in virtù del quale, come è noto, un elemento tematico di base viene trasformato in un qualcosa d’altro, che però mantiene con il modello un rapporto strettissimo di parentela. Concetto questo perfettamente applicabile alla ricchissima produzione di Carlotto, il quale ha sottoposto il genere noir a continue ‘variazioni’, ne ha piegato le convenzioni, fino a farle implodere del tutto, con l’intento di fornire una quanto mai efficace rappresentazione della caduta dell’umano all’interno di un contesto sociale, culturale e economico malato e sempre in balia dell’imprevedibile: narrare per lo scrittore padovano equivale a esplorare quegli spazi della trasgressione, della violenza e del segreto, che sfuggono alla logica del paradigma indiziario.

Nella scegliere le sue ‘variazioni sul noir’, Carlotto non ha seguito un criterio cronologico, ma piuttosto di contenuti. Non è un caso che il primo racconto del libro, Cuori rossi, scritto nel 2006, si concentri su quei temi da lui più frequentemente esplorati (basti pensare al ciclo dell’Alligatore), vale a dire il senso di sconfitta e di disadattamento rispetto all’oggi che pervade quanti hanno creduto nello spirito rivoluzionario dei movimenti degli anni Settanta, il dominio assoluto e incontrastato del denaro sulla vita e i cambiamenti psicopatologici determinati dalla routine carceraria, la propensione alla violenza sia mentale che fisica. 

Da fatti di cronaca prendono invece spunto due racconti poco noti dell’antologia. Si tratta di Cortonese Station, storia di un killer al servizio della mafia russa, che mentre è impegnato a Perugia nei preparativi di un ‘lavoro’, viene fermato e ripreso da una troupe giornalistica giunta in città per seguire il processo ad Amanda Knox. È un testo scritto su commissione del capoluogo umbro, che nel 2008 coinvolse quattro scrittori, tra cui Carlotto, per un volume, Nero perugino, a distribuzione gratuita. L’intento era quello di «scrostare dalla città le immagini morbosamente replicate e le parole surreali emesse laddove invece ingenuamente si presume venga distillata la realtà: sui giornali e nei telegiornali». Invece ne La donna giusta, pubblicato in Francia con il titolo Gaia nell’antologia À table!, curata da Laurent Lombard (2004), un brutale fatto di sangue entro le mura domestiche, mostra come la situazione economica sia alla base della possibilità di una coppia in crisi di affrontare o meno una separazione, con l’obbligo ad una convivenza forzata che può avere esiti devastanti.

Dalle pagine di Variazioni sul noir emerge la grande attenzione che Carlotto ha sempre riservato al mondo femminile. Lo testimoniano, tra gli altri, il fortunatissimo monologo della casalinga disperata di Niente più niente al mondo (2008), e il ciclo delle quattro Vendicatrici, che ha anticipato le storie di malaffare dell’inchiesta Roma Capitale. Ritroviamo qui la lesbica e sessualmente disinvolta commissaria Bernadette Bourdet di Respiro corto (2012), «brava e tosta quanto brutta», tanto da essere chiamata ironicamente B.B., nel racconto B.B. e il caso del poliziotto spagnolo, un noir investigativo apparso sul «Corriere della sera» nell’estate 2012. E le donne astute e spietate, come la Patrizia, che un tempo si chiamava Roberto, capace di incastrare l’esperto sicario ingaggiato per ucciderla (La presunzione), assetate di vendetta dopo il tradimento del proprio uomo (Champagne per due), lacerate nel corpo e nella mente dopo aver subito uno stupro (Zodiaco) sono invece al centro di tre ‘racconti crudeli’, apparsi per la prima volta in altrettante antologie curate da Tecla Dozio, libraia della Sherlockiana di Milano, figura di spicco del mondo della narrativa giallo/noir, grande esperta di letteratura di genere. A lei, scomparsa nel 2016, si deve il merito di aver fatto conoscere ai lettori italiani moltissimi autori stranieri e di aver dato la possibilità a molti italiani esordienti di pubblicare i propri romanzi e di affermarsi. Questo libro è anche un omaggio alla Signora del giallo

Marriage Story

Già nel film, il quarto, che lo ha imposto all’attenzione del grande pubblico, “Il calamaro e la balena”, Noah Baumbach aveva messo in scena la crisi e la separazione di una coppia di intellettuali newyorkesi nella metà degli anni Ottanta, optando per il punto di vista dei loro due figli. E di conflitti familiari è pieno il suo cinema, compreso questo ultimo, bellissimo “Marriage Story”, dove però Baumbach, al contrario dei suoi titoli precedenti, non offre il ritratto di una famiglia bizzarra, disfunzionale, tutto sommato simpatica, ma un imparziale e profondo ritratto, una vera e propria radiografia, del disfacimento di un nucleo familiare, con le relative conseguenze e implicazioni.
Adam Driver e Scarlet Johansson abbandonano i costumi dei mega-franchise in cui sono impegnati (rispettivamente Star Ware e il Marvel Cinematographic Universe) per interpretare una giovane coppia con un figlio. Lui, Charlie, newyorkese, è il regista di una compagnia off-Broadway, di cui lei, Nicole, losangelina, è la prima attrice. Già starlette del cinema collegiale, con una sequenza cult in cui ha mostrato le tette, per amore del marito e dell’arte ha rinunciato alla fama e ai soldi delle grandi produzioni e si è trasferita a NY. Erano considerati una coppia perfetta, tutti i loro amici pensavano che mai si sarebbero lasciati. Invece hanno deciso di separarsi, forse perché hanno la sensazione di non essere più innamorati. Eppure sono legati da un sentimento profondo, si rispettano e si stimano, ma sentono che la loro vita non può continuare insieme.
All’inizio del film la loro relazione è già agli sgoccioli. Hanno deciso di separarsi e li troviamo da un mediatore matrimoniale nel tentativo di negoziare la loro separazione in modo amichevole e senza nuocere troppo al figlio. Tuttavia le loro buone intenzioni si scontrano con le regole del percorso legale alla base del divorzio. “Questo sistema premia i cattivi comportamenti”, dice Laura Dern nei panni della panterona avvocatessa divorzista di Nicole, Nora Fanshow. “Alla fine del processo vi odierete”, le fa eco Jay Marotta, Ray Liotta, il legale di Charlie. I due avvocati, istrionici e cinici, trasformano i loro clienti da attori teatrali ad attori della vita, costringendoli a recitare un ruolo preciso, quello del genitore ineccepibile vittima del coniuge. Tutto l’iter giudiziario del divorzio si fonda sull’aspetto performativo, che inchioda ognuna delle parti in causa a un ruolo, persino estraneo alla propria reale natura. Ma “Marriage story” non è solo un dramma sulle conseguenze del divorzio: il tono Bergman, suggerito già nel titolo, cede a volte il passo al tono Allen, grazie anche ai personaggi secondari, interpretati da caratteristi eccezionali, come Wallace Shawn, Alan Alda, e la Julie Hagerty dell’”Aereo più pazzo del mondo”, capaci di offrire momenti di grande ilarità. In magico equilibrio tra commedia e dramma, “Marriage Story” ha numerose scene da antologia. Ricordiamo tra tutte, la simulazione della testimonianza al processo, la visita della assistente sociale che deve assistere al pranzo di Charlie con il figlio, il formidabile monologo di Laura Dern (che mostra qui la stessa energia esibita in “Big Little Lies”, e Adam Driver, crooner improvvisato.
Un gran bel film.

L’immortale

Ogni stagione di “Gomorra” si è conclusa con la morte violenta e inaspettata di uno dei protagonisti. Quella più illustre e choccante è avvenuta alla fine della terza, quando Ciro Di Marzio, detto l’immortale (perché ancora infante, era miracolosamente ritrovato vivo sotto le macerie causate dal terremoto dell’Irpinia), era stato ucciso da Genny. Ebbene, Ciro non è morto: il colpo sparatogli a bruciapelo non ha raggiunto il cuore, pur andandoci vicino. La sua resurrezione – gli spiega Don Aiello – gli permette quello che per altri è solo un sogno: ricominciare da capo. Dal momento che la vicenda di Gomorra è andata avanti, gli sceneggiatori, per reinserire il personaggio nella continuity della serie, ne hanno trasferito le gesta in Lettonia, a Riga. Qui Ciro viene mandato a lavorare come intermediario tra la camorra napoletana e la mafia russa, a sua volta in guerra con la criminalità locale. Per far arrivare la droga, si appoggia all’attività di sartoria contraffatta di Bruno, cioè il mentore della sua infanzia criminale a Napoli. Una collaborazione che fa riaffiorare in lui molti ricordi. Così il film si sviluppa su due piani temporali, quello contemporaneo alla quarta stagione, dove Ciro si barcamena tra clan rivali, servitore di due padroni, che porterà alla reciproca distruzione, e quello che funge da “origin story”. Proprio quando racconta l’infanzia dell’Immortale nella Napoli degli anni Ottanta il film vive i suoi momenti migliori grazie all’empatia che è capace di suscitare il piccolo Giuseppe Aiello (molto somigliante al Totò Cascio di “Nuovo cinema Paradiso”): il suo rapporto con Bruno, sorta di padre putativo, e la sua attrazione nei confronti di Stella, giovane cantante neomelodica, sono tratteggiati con realismo, sensibilità e intelligenza. Ovviamente non mancano sparatorie, esplosioni, scene d’azione e colpi di scena, con Ciro che si muove silenzioso, imbronciato e monoespressivo: un immortale che è tale perché è già morto, avendo perso tutti gli affetti. Operazione di marketing fondata su un crossover tra cinema e televisione – produce e distribuisce in 450 copie Sky – mai vista prima in Italia, “L’immortale” rappresenta una puntata extra e maxi di “Gomorra”, di cui riprende gli aspetti principali del franchise: colonna sonora dei Mokadelic, stesso lavoro sul colore, scenari dominati da strade spettralmente deserte, ambienti interni dalla forte connotazione simbolica, dialoghi fondati su battute epigrafiche, frase-stacco di macchina da presa. In televisione nel contesto più ampio della serie funziona, al cinema sa di minestra riscaldata.

Atlantique

Opera prima della regista franco-senegalese Mati Diop, che lo ha sviluppato a partire da un suo corto del 2010, “Atlantique”, Gran Prix della Giuria a Cannes 2019, ha due grandi meriti. Innanzitutto quello di spostare il punto di vista dei fenomeni migratori dalla parte dei paesi d’origine e di mostrare una generazione, per lo più di venti/trentenni, costretta ad abbandonare il proprio paese natio alla volta di nuovi lidi, dove poter trovare un futuro migliore, anche se spesso partire equivale a morire. Il secondo di scegliere un registro narrativo originale, dove il realismo documentario, quello che caratterizza il primo segmento del film, cede il passo all’elemento fantastico, con una serie di riferimenti alla tradizione animistica e al folklore senegalesi, in particolare a quella legata ai djinn, cioè ai demoni della tradizione coranica, originatisi all’inizio dei tempi per volontà di Allah affinché lo adorassero. All’inizio di “Atlantique”, vediamo, come se fossimo in un film di Ken Loach, un manipolo di muratori avanzare una serie di legittime proteste: il responsabile del cantiere di un enorme grattacielo in costruzione a Dakar non versa loro il salario da ormai tre mesi. Così decidono di raggiungere la Spagna, attraversando l’Atlantico con un mezzo di fortuna. Tra loro c’è Suleiman, che ha una storia d’amore clandestina con la diciassettenne Ada, promessa in sposa a un ricco rampollo locale, che ha fatto fortuna in Italia. Il viaggio si conclude tragicamente: gli operai tornano sì a casa, ma come djinn. Prendono possesso dei corpi delle ragazze, trasformandole in creature cieche e vendicative. Tuttavia siamo lontani dall’horror politico, quello alla Jordan Peele per intenderci. L’ambiziosa opera prima di Mati Diop è una favola, in cui una variazione attualizzata di Romeo e Giulietta si fonde con il mito di Orfeo ed Euridice, per poi scontrarsi con il presente della crisi economica, dello sfruttamento del lavoro, delle sperequazioni sociali, e della tragedia delle migrazioni. Ne deriva un racconto allegorico, sospeso tra sogno, veglia e incubo, dove, nonostante qualche incertezza e semplificazione di troppo, lo sguardo dello spettatore è colpito da immagini di grande e dolorosa potenza, immagini di buio e di luce, dominate dalla maestosità enigmatica dell’oceano. Atlantico che non può nascondere e occultare quello che la politica e le cronache riducono a una cruda statistica, a un insieme indifferenziato di uomini, donne e bambini, che invadono porti e affollano centri di accoglienza. I dijnn, spiriti di uomini in corpi di donne, creatori di una umanità ancestrale e al tempo stesso ‘nuova’, ci ricordano che ogni naufragio è un avvenimento a sé stante, che pretende di essere sottratto all’oblio e di essere colto nella sua unicità.

Dov’è il mio corpo?

“Dov’è il mio corpo?” (ma il titolo originale recita “J’ai perdu mon corps”, cioè “Ho perso il mio corpo”, senza alcun punto interrogativo) è stato il primo film d’animazione a vincere la Seimane de la Critique a Cannes 2019, per poi aggiudicarsi il premio della giuria e quello del pubblico al Festival di Annecy. Tratto dal romanzo “Happy Hand” dello scrittore Guillaume Laurant, che lo ha sceneggiato con il regista Jérémy Clapin, famoso illustratore francese, qui alla sua opera prima, è la storia di una mano umana, mozzata, che fugge dal laboratorio dell’ospedale per andare alla ricerca del proprio corpo: una vera e propria odissea lungo i tetti, le strade e i sotterranei, a scansare le insidie di topi, piccioni e agenti atmosferici. È la mano di un ragazzo di origine magrebina, Naoufel, giunto in Francia con grandi speranze, ben presto disattese. Una serie di flashback ci fa conoscere la sua storia. Timido e impacciato, Naoufel, che sognava da bambino di di fare il pianista o l’astronauta, consegna, piuttosto maldestramente in verità, pizze a domicilio, per poi lavorare come apprendista nella falegnameria dello zio di Gabrielle, di cui è innamorato. E proprio qui perderà la mano per un incidente sul lavoro.

Siamo ben lontani dalle atmosfere horror del film d’esordio di Oliver Stone o della commedia nera stile Famiglia Addams. “Dove è il mio corpo?” è una fiaba delicata (lo sceneggiatore Guillaume Laurant è un collaboratore di Jean-Pierre Jeunet, firmando, tra gli altri, lo script de “Il favoloso mondo di Amelie” o de “Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet”), in cui le tematiche universali dell’amore, della speranza e del sogno, si alternano alla analisi sociale. Il tutto con una scelta di animazione tradizionale, che rinvia alla tradizione transalpina della “linea chiara”, dove l’animazione 3D e i disegni 2D si alternano con efficacia. Curiosa l’idea di ribaltare la teoria del corpo che mantiene il ricordo dell’arto perduto, in quella dell’arto che conserva la memoria del corpo.